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    Commento alla Torà. Parashà di Terumà: chi può raccogliere offerte per la comunità?

    Diversi commentatori della Torà si soffermano su una inconsueta espressione
    all’inizio della parashà: “L’Eterno
    parlò a Moshè dicendo: parla ai figli d’Israele che prendano per Me
    un’offerta…” (Shemòt, 25:1).

                    R. Avraham Saba’ (Castiglia, 1440-1508, Verona?) in Tzeròr Ha-Mor, scrive che nella Torà è
    scritto “che prendano per Me un’offerta” invece di “che diano” per insegnare
    che in questo mondo tutto appartiene al Padreterno. Questo concetto era stato
    già espresso da re David quando disse: “E chi sono io e chi è il mio popolo,
    per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da
    Te: noi, dopo averlo ricevuto dalla Tua mano, te l’abbiamo ridato” (2, Divrè
    Hayamìm, 29:14). Questo ci insegna che le offerte e la beneficienza che
    facciamo volontariamente al Santuario o ai poveri, non sono cose che noi diamo
    ma sono cose che riceviamo perché nessuno può pretendere di dare qualcosa
    all’Eterno a cui tutto appartiene (e che non ha bisogno di nulla). Ed è
    l’Eterno che da’ in pegno agli uomini le cose buone di questo mondo con il
    permesso di usare queste risorse per le proprie necessità a condizione che
    l’uomo usi tutto al servizio del Creatore e non abbia l’arroganza di dire “la
    mia forza e l’energia del mio braccio mi hanno procurato questa ricchezza” (Devarìm, 17:8). Chi pensa in questo modo
    non farà mai beneficienza. 

                    In modo analogo R.
    Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1886, New Yok) in Daràsh Moshè commenta che da questo versetto impariamo che l’Eterno
    desidera ricevere offerte solo da coloro che ritengono che le loro proprietà
    siano come un fondo fiduciario che l’Eterno ha messo a loro disposizione e da
    usare solo a fini di bene. In questo modo quando qualcuno da’ tzedakà (beneficienza) permette
    semplicemente a coloro che la raccolgono di prendere qualcosa che non gli
    appartiene. Pertanto chi raccoglie riceve qualcosa, ma chi fa beneficienza in
    effetti non da’ nulla di suo.

                    R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) spiega che
    l’espressione “che prendano per Me” significa che il versetto vuole istruire i gabbaìm, gli amministratori, a
    raccogliere le offerte per la costruzione del Mishkàn, il tabernacolo mobile usato dagli israeliti nel deserto.

                    R. Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900) nel suo commento Panìm la-Torà suggerisce che la Torà
    ordina che gli israeliti si sollecitino a vicenda ed ognuno di loro raccolga
    l’offerta dal proprio vicino. 

                    R. Israel Meir Kagan (Belarus, 1839-1933), noto con l’appellativo Chafètz Chayìm, dal titolo della sua
    opera più famosa, disse che bisognava essere molto pedanti nel selezionare gli
    incaricati che viaggiavano per raccogliere donazioni per la sua yeshivà. Nel dare questa raccomandazione
    egli citò il versetto dove è scritto “e prenderanno per Me” e non “e daranno a
    Me”. Questo versetto insegna che i donatori non mancano perché gli israeliti
    sono generosi. La difficoltà consiste nel trovare persone per bene, capaci e
    oneste e che ispirano fiducia.

                    Per questo motivo gli
    emissari che viaggiavano da Eretz Israel per raccogliere fondi per l’antico
    Yishùv venivano generalmente selezionati tra i leader della comunità. Nel
    Settecento uno dei più famosi emissari fu rav
    Chayim Yosef David Azulai (Gerusalemme, 1724-1806, Livorno) che dopo anni
    di viaggi nei paesi del Mediterraneo e in Germania, si stabilì a Livorno dove
    nel 1778 sposò in seconde nozze una ebrea pisana. Seguendo questo esempio, nel
    Novecento fu inviato in America rav
    Ya’akov Kamenetzky (Lituania, 1891-1886, New York), che più tardi divenne Rosh Yeshivà a Brooklyn, a raccogliere
    fondi per un’organizzazione lituana. R. Kamenetzky era una personalità
    esemplare e quando scoprì che l’organizzazione per la quale era stato inviato
    in America aveva falsificato una ricevuta per fare credere a un filantropo
    americano che nel passato aveva donato una cifra superiore a quella reale e
    pertanto facesse una donazione migliore, dette le dimissioni sul posto anche se
    non aveva altri mezzi per mantenersi.
       

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