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    Un movimento nazionale?
    L’assalto al rettorato e poi al commissariato di polizia dell’Università di Roma, con le successive violenze che hanno reso necessarie le cure mediche per 27 fra poliziotti e carabinieri, non è un caso isolato. C’era stata prima l’invasione del rettorato di Torino, gli scontri in occasione dell’apertura dell’anno accademico di Bologna, l’occupazione della Scuola Normale di Pisa, episodi analoghi a Napoli, Cagliari, Bari e in altri atenei. A Napoli era stato impedito a Maurizio Molinari di tenere una conferenza in sostanza perché ebreo, e lo stesso era accaduto a David Parenzo a Roma. Ce n’è più che a sufficienza per parlare di un’ondata universitaria nazionale contro Israele, con venature esplicitamente antisemite; una situazione molto preoccupante. Non bisogna però sbagliarsi. Non si tratta di un movimento degli studenti, o almeno non della loro grande maggioranza. Sui 108 mila e passa iscritti alla Sapienza, quelli che hanno cercato di invadere il rettorato e poi il commissariato erano circa 300, secondo le valutazioni delle forze dell’ordine, e fra questi c’era un certo numero di soggetti estranei all’università, anarchici e immigrati arabi, perfino un ventinovenne libico. Le stesse proporzioni si riscontrano anche negli altri episodi: sulle 87 università italiane solo una decina sono coinvolte in questa illegalità e sempre con proporzioni molto basse: in tutto si può stimare che gli studenti coinvolti siano un migliaio o due, sul milione e novecento mila iscritti ai corsi universitari.

    Minoranze ideologizzate
    Questa partecipazione estremamente minoritaria non è però sufficiente a tranquillizzare. Chi conosce l’università italiana e la sua storia sa che dal Sessantotto in poi la quota dei partecipanti alle manifestazioni è sempre stata molto bassa, ma questo non ha impedito ai movimenti di raggiungere obiettivi spesso dannosi. Ciò sta accadendo anche in questo caso. A Torino, a Bari e alla Normale i manifestanti sono riusciti a ottenere che le università bloccassero la partecipazione a un bando del Ministero degli esteri italiano per la collaborazione con le università israeliane. Gli argomenti proposti nel bando non avevano nulla a che fare con la guerra e riguardavano temi per cui la ricerca israeliana è molto più avanti di quella italiana: la gestione dell’acqua e l’agricoltura in territori in via di desertificazione e l’ottica quantistica che si userà nei prossimi computer. Il danno è dunque molto probabilmente delle università italiane che hanno perso l’occasione di apprendere metodi e risultati importanti. Ma questo non importa agli “studenti”, come non interessa loro conoscere i fatti prima di giudicare: gli scontri a Roma sono avvenuti il giorno dopo del tentato bombardamento iraniano su Israele, ma nessuno di loro se n’è occupato. La loro ideologia dice: “fuori Israele dall’università”, che ci siano terroristi che uccidono e violentano e rapiscono o stati terroristi che bombardano a tappeto non importa niente.

    L’influenza del media
    In realtà questi movimenti sono endemici e, come le malattie infantili, si ripresentano a intervalli di qualche anno con un pretesto o con l’altro soprattutto nei dipartimenti umanistici. Quest’anno il pretesto è Israele e la malattia sembra un po’ più acuta del solito. Ci sono parecchie ragioni per questa maggiore intensità: una è l’atteggiamento dei media, di molti politici e organizzazioni internazionali, tutto sbilanciato contro lo stato ebraico fino alla complicità oggettiva con Hamas. Bisogna prendere atto, nonostante tutto il lavoro fatto sulla Shoà e l’antisemitismo, che gli ebrei sono obiettivi che molti “amano odiare”, secondo il modo di dire americano. Un’altra ragione è che questo antisemitismo sotto forma di ostilità per Israele ha preso piede soprattutto a sinistra; è difficile oggi dirsi di sinistra senza odiare Israele e i contestatori dell’università si collocano all’estrema sinistra.

    I professori
    Ma una grande responsabilità va anche attribuita ai professori, che a loro volta in tutto il mondo sono in grande maggioranza di sinistra e dopo la morte del comunismo hanno cercato di costruire nuovi bersagli polemici “intersezionali” (cioè vari, non più centrati sulla lotta di classe ma sempre “rivoluzionari”) che però per lo più sono solo sociali e senza organizzazioni politiche: i bianchi, il “patriarcato”, gli eterosessuali, chi non accetta la teoria del “gender”. In questa serie di “cattivi” Israele è la realtà politica più visibile e meno imbarazzante (dato che prendersela con la Cina o con la Russia contrasterebbe con antichi riflessi condizionati). Quindi lo Stato ebraico è diventato il nemico per eccellenza per appelli e dichiarazioni largamente sottoscritte dai professori universitari. Che vi siano dei giovani che traducano in azione violenta tali scelte ideologiche a molti docenti fa piacere. E poi c’è la viltà di non opporsi all’illegalità e alla violenza in università per evitare strappi e guai sul proprio posto di lavoro.

    La dignità di pochi rettori
    Purtroppo ci sono tutte le condizioni perché il movimento antisemita delle università continui fino al naturale esaurimento, perché esso non viene contrastato e anche nei rari casi in cui i violenti vengono arrestati e portati davanti a un giudice sono trattati con indulgenza, magari con solidarietà e sono subito rimessi in libertà, com’è successo a Roma, o magari si fa un accordo con le loro organizzazioni, come ha deciso la giunta comunale di Torino. Bisogna essere grati alle rare autorità accademiche che, al di là delle loro posizioni ideologiche, si oppongono all’illegalità, come hanno fatto i rettori di Bologna e di Roma, o a chi ha firmato gli appelli contro la rottura delle relazioni scientifiche con Israele; gesti di coraggio e di dignità che purtroppo non sono frequenti nelle nostre università.

    credit foto Ansa/Massimo Percossi

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