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    Cultura

    Davka, dove la musica apre alla conoscenza

    Tel Aviv, 2004. Il mare davanti, una città viva alle spalle. Maurizio Di Veroli e Uri Baranes sono lì, nel pieno della seconda intifada, per ritagliare un frammento di serenità tra le loro famiglie. Ma qualcosa stona. I racconti dei media, le narrazioni dell’Occidente, sembrano parlare di un’altra realtà: lontana, distorta. Seduti sulla sabbia, capiscono che non basta spiegare. Occorre mostrare. Non ribattere, ma suonare. “Dicemmo: davka. Apposta. Perché quando tutto va in una direzione, a volte bisogna andare nell’altra. Perché è vero, e necessario”. Così racconta a Shalom Maurizio Di Veroli, coordinatore e ideatore degli spettacoli messi in scena. Nasce così Davka. Un nome che non si traduce, come certe emozioni, come certe identità. Quella italiana ed ebraica, che non si lasciano racchiudere in una sola definizione. Un progetto musicale, certo, ma prima di tutto culturale. Un’iniziativa che vuole far ascoltare l’ebraismo, nelle sue forme molteplici, oltre i confini, i cliché, i titoli.

    La musica è il punto di partenza, e il ponte del progetto. Clarinetto, fisarmonica, contrabbasso, voce: strumenti che si fanno racconto, che diventano dialogo. Tutto nasce da un desiderio semplice, potente: aprire uno spazio in cui incontrare davvero l’ebraismo, nella sua spiritualità, nella sua pluralità, nella sua umanità.

    “Ci interessa far sentire il respiro dell’ebraismo. Che sia sefardita, chassidico o yiddish. Che prenda voce nei dialetti giudaico-italiani, romano, mantovano, piemontese. Davka rielabora tutto in chiave moderna: attraverso il jazz, il blues, gli arrangiamenti aperti. Così la musica entra nella vita”.

    Ogni concerto è costruito come un viaggio. Ogni tappa, ogni brano, è introdotto da una narrazione. Si parla di vino, di memoria, di festa, di dolore. Per condividere.

    Subito, colpisce un dettaglio tutt’altro che secondario: molti dei musicisti non sono ebrei. “È una scelta voluta. Perché quando la fede non è ideologia, è dialogo. Collaborare con chi ha storie diverse è, già di per sé, un messaggio. E sul palco, si vede”.

    Davka è questo: un progetto che rifiuta ogni limitazione, sia essa culturale, linguistica, politica. È uno spazio aperto, dove l’identità non separa, ma connette.

    “L’ebraismo non è una scatola chiusa. È fatto di voci diverse che sanno stare insieme. Questo è il nostro messaggio. Ed è visibile, già solo guardando chi suona accanto a chi”.

    Dopo concerti di rilievo, dal Parco del Colosseo al Palazzo della Cancelleria Vaticana, la prossima tappa è in programma per il 12 giugno, alle ore 20:30, presso l’Istituto Italiano di Studi Germanici di Roma. L’ingresso è libero.

    Il concerto si intitola Tikkun, parola ebraica che significa “riparazione”. Un concetto che si riferisce a tanti ambiti: la “riparazione” del pianeta, ma non solo, perché si parlerà anche di fratture interiori, spirituali, culturali.
    La locandina raffigura un frammento di ceramica ricucito secondo l’antica tecnica giapponese del kintsugi: l’oro colma le crepe, le rende preziose, racconta la storia della rottura e del ritorno.

    “Non vogliamo dare risposte. Vogliamo offrire possibilità. Occasioni per ascoltare, conoscere, avvicinarsi.
    Non parliamo della politica di uno Stato, ma della profondità di un popolo”.

    Negli ultimi mesi, non sono mancate le difficoltà: alcuni eventi cancellati, altri messi da parte con scuse vaghe.
    Ma Davka va avanti. Con delicatezza. Con tenacia. Perché raccontare la bellezza di un’identità è già un atto di resistenza.

    Con Tikkun, Davka torna a suonare. Per ricucire ciò che si è spezzato. Perché nelle crepe, a volte, entra la luce. E la musica può farla restare.

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