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    NEWS

    L’analisi di Donald Trump nel nuovo libro di Claudio Pagliara “L’Imperatore”

    “L’Imperatore”, scritto da Claudio Pagliara, giornalista, saggista e per 25 anni corrispondente della Rai da Parigi, Gerusalemme, Pechino e New York, pubblicato dalla casa editrice Piemme, è un libro che racconta e analizza le mosse di uno dei presidenti più discussi e determinanti della storia americana: Donald Trump. Attraverso l’occhio di un giornalista che ha vissuto sul campo le trasformazioni politiche e sociali degli Stati Uniti, Pagliara offre un’analisi lucida della figura di Trump e del suo impatto profondo sulla democrazia americana, sui rapporti internazionali e sulla geopolitica globale.

    Lei è stato tra i pochi giornalisti italiani a prevedere con chiarezza la vittoria di Donald Trump, nonostante la gran parte dei media sostenesse l’esatto contrario. È anche per questo motivo che ha deciso di scrivere questo libro?
    Sì, esattamente. Ho deciso di scrivere questo libro anche per questo motivo. Purtroppo, in Italia il ruolo del corrispondente viene spesso interpretato in modo riduttivo, a differenza di quanto accade in altri Paesi in cui ho avuto il piacere di lavorare. Altrove, il corrispondente è considerato dalla propria testata il massimo esperto del Paese in cui si trova. Chi è sul posto ha la possibilità di vedere con i propri occhi ciò che accade, di vivere la realtà quotidiana, e per questo ha un punto di vista privilegiato. Esistono naturalmente gli analisti e gli esperti di geopolitica, ma il loro ruolo dovrebbe essere complementare, non sostitutivo rispetto a chi lavora direttamente sul terreno. Il libro è stato un tentativo di raccontare ciò che non mi è stato possibile spiegare nei miei interventi, dove ero chiamato a parlare come cronista con pochissimo spazio a disposizione. Girando l’America in lungo e in largo, era evidente che esistesse un’“America dimenticata”: agricoltori in difficoltà a vendere i propri prodotti in un mercato globale sempre più competitivo; operai che avevano perso il lavoro o lo stavano per perdere a causa della delocalizzazione dell’industria manifatturiera americana verso l’Asia negli ultimi quarant’anni. Quella parte d’America, tradizionalmente vicina al Partito Democratico, è stata invece intercettata con grande efficacia da Trump. Il segnale era chiaro: l’entusiasmo con cui queste persone accoglievano i suoi comizi non lasciava dubbi. A questo si è aggiunto, secondo me, un grave errore dell’amministrazione Biden: aver lasciato sostanzialmente aperti i confini all’immigrazione irregolare nei primi due o tre anni di mandato. Questo ha generato una concorrenza diretta nella fascia più bassa del mercato del lavoro. Le élite — da Hollywood a Wall Street — non ne hanno risentito, ma afroamericani e ispanici, che spesso occupano le posizioni più fragili, sì: hanno visto i salari abbassarsi, le opportunità ridursi, e sono aumentati anche il senso di insicurezza, la criminalitàe il disordine sociale.

    Nonostante Donald Trump e le sue politiche radicali e rivoluzionarie sembrino segnare una nuova era nella storia degli Stati Uniti, secondo lei la democrazia americana è abbastanza solida da reggere questa svolta?
    Non a caso ho intitolato il mio libro L’Imperatore. In un certo senso, è stato anche un titolo profetico. Le manifestazioni anti-trumpiane di questi giorni ruotano infatti intorno a uno slogan molto chiaro: “No Kings”. Questo perché Trump sta cercando di espandere al massimo, e forse anche oltre, i poteri esecutivi del presidente. Detto questo, io credo che – al di là della sua volontà di imprimere una svolta autoritaria alla politica americana – la democrazia statunitense resti comunque molto solida. Il sistema costituzionale americano, infatti, è basato su un forte bilanciamento dei poteri: il legislativo, il giudiziario e l’esecutivo si controllano reciprocamente in modo molto rigoroso. Ed è proprio questo equilibrio a rappresentare la vera forza della democrazia americana. Lo vediamo anche in questi giorni: diversi provvedimenti di Trump sono passati al vaglio dei giudici, che in alcuni casi hanno respinto i ricorsi, in altri – quando Trump ha superato i limiti tracciati dalla Costituzione – hanno bocciato le sue decisioni, costringendolo a fare marcia indietro. L’argine supremo resta comunque la Corte Suprema. Nonostante oggi sia a maggioranza conservatrice, ha già bocciato in passato alcuni provvedimenti dell’amministrazione Trump ritenendoli incostituzionali. Tutti i giuristi, ad esempio, si aspettano che la Corte Suprema respingerà anche uno dei provvedimenti più simbolici e controversi di Trump: la revisione dello ius soli, cioè il principio che garantisce la cittadinanza automatica ai figli di migranti nati negli Stati Uniti. Anche se la Corte è conservatrice, si ritiene che non darà ragione a Trump. In effetti, l’unico modo per modificare lo ius soli sarebbe avviare una riforma costituzionale attraverso il Congresso: un processo estremamente lungo e complicato, che richiede un consenso bipartisan difficilissimo da ottenere nell’America profondamente polarizzata di oggi. In altre parole, è una strada praticamente impraticabile.

    Nel libro emerge chiaramente come Donald Trump sia un leader che cambia spesso idea, anche su questioni cruciali. Non crede che questa imprevedibilità possa compromettere la credibilità degli Stati Uniti sul piano internazionale?
    Mantenere gli interlocutori nell’incertezza fa parte della sua strategia. Non si tratta tanto di cambiare spesso idea, quanto di non svelare mai quali siano le sue vere linee invalicabili. Lo ha fatto più volte: con Zelensky, con i dazi, e perfino con Netanyahu, quando ha dato segnali ambigui per evitare che pensasse che Trump fosse dalla sua parte al cento per cento. Questo è il suo modo di esercitare la leadership. Può piacere o non piacere, ma chi fa giornalismo deve esserne consapevole per interpretare correttamente ciò che dice. Io mi sono sempre attenuto a un principio: ciò che Trump dice va preso sul serio, perché è il presidente della più grande superpotenza mondiale, sia sul piano economico che militare. Allo stesso tempo, però, invito tutti i colleghi a non prenderlo alla lettera. Spesso ciò che dice fa parte di una tattica negoziale, e lui sa di poter modificare anche drasticamente le sue posizioni in poche ore o addirittura minuti. Quindi, la mia regola aurea è prendere seriamente ciò che Trump fa, ma non necessariamente tutto quello che dice.Per quanto riguarda un giudizio completo sulla sua politica estera, credo che sia necessario attendere l’esito di molti conflitti ancora aperti. Solo allora potremo capire se la sua strategia negoziale — ad esempio sulla questione ucraina, sull’apertura verso Putin o sull’accordo riguardante i minerali — sarà stata una mossa efficace.

    Come si posizionano gli Stati Uniti rispetto a Israele nella gestione della minaccia iraniana?
    Gli Stati Uniti e Israele hanno una relazione profonda e consolidata, sostenuta non solo dai loro leader attuali ma anche da un Congresso che difende fermamente la sicurezza di Israele, spesso oltre le divisioni di partito. Questo crea una base solida di supporto politico. Per quanto riguarda l’Iran, c’è il sospetto che negli ultimi tempi sia stato messo in atto un gioco del “poliziotto buono e poliziotto cattivo”. Da una parte Trump ha avviato un negoziato, dall’altra ha supportato azioni militari — come l’operazione israeliana contro le infrastrutture iraniane — in modo che sembrasse che Teheran fosse sotto pressione sia diplomatica che militare.Il fatto che figure di altissimo livello – tra cui il comandante delle forze aeree dell’IRGC, Gen. Amir Ali Hajizadeh, il capo del Corpo delle Guardie della Rivoluzione, Gen. Hossein Salami, e il capo di Stato Maggiore delle forze armate iraniane, Magg. Gen. Mohammad Bagheri – non si siano rifugiati nei bunker durante l’attacco israeliano di tre giorni fa dimostra che percepivano la minaccia come poco imminente. Sapevano che tra tre giorni era prevista una nuova tornata di colloqui sul nucleare, e probabilmente non credevano che Israele potesse colpire prima di allora. Inoltre, la strategia di Trump sembra quella di mantenere sempre aperta la porta del dialogo, senza però rinunciare alla minaccia di usare la forza, cercando così di spingere l’Iran verso un compromesso ragionevole.Il problema è che l’interesse americano — che Trump ha esplicitamente posto come “America First” — non coincide sempre con quello di Israele, anche se sono alleati strategici. Questo principio guida l’azione americana e ha portato a cambiamenti radicali nelle relazioni internazionali, dove gli interessi nazionali economici e politici vengono messi davanti alle alleanze tradizionali.

    Inoltre, come lei stesso sottolinea nel libro, l’Iran si trova attualmente in una situazione difficile e complessa. È realistico pensare oggi a un cambio di regime?
    Un cambio di regime, in generale, avviene spesso in modo imprevedibile. Abbiamo visto esempi recenti, come in Siria, dove la situazione è cambiata in modo inaspettato. Per l’Iran, però, un cambio di regime è una prospettiva ancora molto incerta. L’operazione militare israeliana potrebbe rappresentare una svolta, ma comporta anche rischi notevoli.Il vero obiettivo rimane impedire che l’Iran sviluppi un’arma nucleare, una minaccia che Israele, gli Stati Uniti e la comunità internazionale non possono permettersi. In questo senso, la speranza è che la guerra e la pressione portino a un’intesa che fermi il programma nucleare iraniano e, possibilmente, indebolisca il regime al punto da favorire un cambiamento, sia per cause interne che esterne.In sintesi, un cambio di regime in Iran non è da escludere, ma non è oggi un’ipotesi scontata o imminente. La situazione resta molto fluida e pericolosa, e il risultato dipenderà dalla combinazione di azioni militari, diplomatiche e politiche che si svilupperanno nei prossimi mesi.

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