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    ISRAELE

    La settimana di Israele: vittoria totale

    Prima della guerra
    La notizia principale della settimana è quella che i media e i politici in Europa e anche in Italia si rifiutano ostinatamente di dare: Israele ha vinto, la guerra non è finita ma si avvia verso la conclusione. La vittoria di Israele risulta chiara semplicemente confrontando la situazione di questi giorni con quella subito precedente al 7 ottobre. Allora Hamas aveva decine di migliaia di uomini armati e ben disciplinati, almeno 20 o 30 mila missili, l’appoggio della popolazione di Gaza che amministrava, oltre che quello di altre organizzazioni terroristiche come la Jihad Islamica (direttamente iraniana) e le “brigate di Al Aqsa” (di Fatah), era arroccata in una rete di fortificazioni sotterranee di 800 km, seguiva un piano ben congegnato per prendere di sorpresa lo Stato ebraico onde assicurarsi l’insurrezione degli arabi israeliani e di Giudea e Samaria, contava sulla divisione politica e sociale profonda di Israele. Otteneva rifornimenti dal confine egiziano, era sostanzialmente appoggiato dall’Onu attraverso l’Unrwa e visto di buon occhio dalla sinistra mondiale. Era garantito, finanziato e armato dalla potenza regionale che puntava all’egemonia e allo status di grande potenza, l’Iran. Al Nord c’era Hezbollah, che aveva ancora più soldati e meglio armati di Hamas; i suoi missili erano 100 o 150 mila, molti di precisione. Aveva anch’essa i suoi tunnel e l’appoggio diretto dell’Iran, governava in sostanza il Libano e usava il corpo internazionale di Unifil come scudo. A Nordest c’era il regime siriano, indebolito dalla guerra civile, ma garantito da militari russi e di Hezbollah, comunque coi suoi missili, aerei e forze corazzate, ben disposto a fare da ponte fra Iran e Hezbollah. Dietro c’erano altri satelliti iraniani, gli Houti in Yemen, gli sciiti in Iraq. Tutte creature dell’Iran, con la sua grande popolazione, l’industria moderna, il petrolio, le alleanze con Russia e Cina, i missili balistici a lunga gittata, un progetto di armamento atomico che era ormai arrivato alla soglia della bomba: la testa del serpente.

    La situazione attuale
    Oggi tutto questo non c’è più. Decimato Hamas, i suoi capi sul campo e all’estero eliminati, buona parte delle sue fortificazioni e quasi tutti i missili distrutti, i canali di rifornimento tagliati. Gli resta l’appoggio dell’Onu e della sinistra mondiale con i suoi media e le loro menzogne (quotidiane a prova della loro vergogna). Hezbollah ha perso le sue armi, i suoi comandanti, le sue installazioni, il dominio del Libano, quasi tutto il peso politico. La Siria è passata in mano a un gruppo anti-iraniano, che certamente è manipolato dalla Turchia, ma esprime volontà di far la pace con Israele (come molti in Libano) e non fa più da ponte per l’infiltrazione persiana sul Mediterraneo. Degli altri gruppi restano attivi gli Houti, pesantemente colpiti però da Israele e dagli Usa. Soprattutto l’Iran ha perso la sua invincibilità, non ha più difese aeree, gli restano pochi missili, ha visto il programma atomico annullato o molto ritardato (e sottoposto alla minaccia di nuovi bombardamenti se proverà a ricostituirlo). Non c’è stata l’insurrezione popolare che si sperava, ma certo Israele con 10 milioni di abitanti contro i quasi 90 dell’Iran e stando più di mille chilometri lontano non poteva imporlo. Ma i processi storici richiedono i loro tempi, bisogna vedere se i persiani saranno disposti a pagare il prezzo enorme necessario per cercare di far ripartire il progetto imperialista del regime.

    Il merito di Netanyahu
    L’architetto di questa vittoria ha un nome, Benjamin Netanyahu. È lui che ha capito, contro l’opinione dell’amministrazione Biden, dell’Europa e della minoranza in Israele, che questa volta non sarebbe bastata un’operazione “per ristabilire la dissuasione”, ma ci voleva un cambio del paesaggio politico del Medio Oriente e dunque prima di tutto un’operazione di terra a Gaza. È lui che ha voluto andare fino in fondo, occupare il confine con l’Egitto e Rafah, contro gli strilli di mezzo mondo, i “don’t” di Biden, la resistenza del capo di stato maggiore e del direttore dei servizi segreti competenti (Shin Bet) che ha licenziato. È lui che ha insistito nella nuova mossa ora vincente e per questo demonizzata da Europa, Onu, stampa, di eliminare la distribuzione di soccorsi dell’Onu, collusa con Hamas, e di sostituirla con una cogestita con gli Usa. È lui che ha deciso, pure qui vincendo molte resistenze anche interne, il bombardamento di Nasrallah e l’uso dei carcapersone esplosivi per eliminare i capi di Hezbollah. È lui che ha speso le sue sofisticate abilità diplomatiche per ottenere l’assenso dell’amministrazione Biden prima e di quella Trump dopo per le sue scelte, senza mai forzare, aspettando pazientemente il momento giusto. È lui che ha deciso il bombardamento dell’Iran dopo aver coinvolto Trump (che la solita stampa diceva avesse rotto con lui). Ed è lui che in cambio del bombardamento di Fordow, punto decisivo della guerra con l’Iran, ha accettato il cessate il fuoco voluto dal presidente americano: altra prova di flessibilità e capacità diplomatica. La vittoria, perseguita con ostinazione per 21 terribili mesi, è sua. Nessuna sorpresa che la sinistra estrema ma anche moderata, politica ma anche mediatica, lo odii come mai aveva odiato nessun altro dei molto diffamati dirigenti israeliani.

    Una dimensione storica
    La guerra che Israele ha vinto non è solo quella dei “dodici giorni” con l’Iran e neppure quella aperta con il pogrom criminale del 7 ottobre 2023 e i bombardamenti successivi (cui subito, il giorno dopo stesso, si unì Hezbollah, e che le carte di Sinwar mostrano pienamente concordata con l’Iran). È la guerra che da decenni organizza l’Iran, raccogliendo la bandiera del terrorismo dei Fatah e dell’Olp e l’eredità delle quattro guerre promosse dagli stati arabi (1948-49, ‘56, ‘67, ‘73). È la guerra dei cent’anni dei musulmani contro l’instaurazione di uno Stato ebraico in Terra di Israele, partita coi pogrom del 1921. Questa è una vittoria più grande e decisiva di tutte quelle passate. Mai Israele aveva combattuto contro tante forze e su tanti fronti, Soprattutto mai era arrivata alla radice dell’aggressione: dietro all’Egitto e alla Siria nelle guerre dopo la costituzione dello Stato c’era la potenza atomica dell’Urss, mentre oggi si è visto che Russia e Cina sono capaci di spendere parole e spedire rifornimenti all’Iran, ma non si sognano di minacciare Israele. Certo, il lavoro è incompleto, Khamenei ancora è il leader iraniano, ma Nasser rimase presidente dell’Egitto dopo aver perso la guerra dei Sei giorni, fino alla sua morte nel 1970 e così Hafez Assad dopo il 1973. I risultati politici successivi a quelle guerre si realizzarono solo dopo anni.

    La conclusione e i dopoguerra
    Ora il punto è come concludere questa guerra e come non far svanire la vittoria con condizioni di pace fallimentari, come vorrebbe l’Europa, la sinistra mondiale e anche quella interna, proponendosi una nuova Oslo o un accordo atomico con l’Iran su stile Obama. Non è possibile pensare che Hamas resti in circolazione più di quanto potesse rimanere in piedi un partito nazista nella Germania dopo il ’45. Non può essere l’Onu o una sua creatura inetta e complice come Unrwa o Unifil ad amministrare la transizione. Non può essere assegnato un ruolo all’impotente, corrotta e anch’essa complice Autorità Palestinese, prossima del resto allo scontro interno quando il vecchio e malato Mahmud Abbas morirà o sarà costretto al ritiro. È una partita che si giocherà fra Israele, Usa (cioè Trump) e stati arabi moderati (innanzitutto Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, con una certa influenza dell’Egitto). Per vincerla Israele avrà ancora bisogno di Netanyahu. Chi si illude di metterlo fuori gioco in cambio alla fine della persecuzione giudiziaria di cui è oggetto (e che l’ha intricato vergognosamente anche nei momenti più difficili di questa guerra), non conosce la tempra del leader e comunque non svolge un buon servizio a Israele.

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