
La malafede di Hamas
È stata molto poco sottolineata dai giornali italiani, ma è probabile che la decisione di Hamas di mandare a monte le trattative con Israele per un cessate il fuoco rappresenti una svolta nella vicenda di Gaza. Quel che è successo è semplice. Hamas aveva ricevuto dai mediatori (Egitto e Qatar, certamente più amici del movimento “palestinese” che di Israele) una nuova e “definitiva” versione della proposta americana. La novità del documento era che, in cambio della liberazione della metà dei rapiti ancora vivi, Israele rinunciava anche alla sua presenza nel corridoio che taglia trasversalmente la parte sud della Striscia. Questo presidio sembrava necessario per consentire di allestire una zona di sicurezza in cui gli abitanti di Gaza avrebbero ricevuto aiuti alimentari dalla fondazione americana GHF. Un’iniziativa importantissima per Israele, ma l’esercito ha capito di poter difendere i punti di distribuzione anche ritirandosi ulteriormente. Era dunque un’offerta che superava tutte le condizioni precedenti, tanto da suscitare contestazioni in seno al governo israeliano. Hamas però “non ha perso l’occasione di perdere un’occasione”, secondo la famosa battuta di Golda Meir, e ha replicato indurendo le sue richieste, cioè in sostanza chiedendo che Israele si ritirasse del tutto da Gaza e gliene consegnasse il governo, ha rifiutato ogni forma di disarmo, ha aumentato il numero di detenuti da liberare in cambio dei rapiti. In sostanza ha chiesto la resa di Israele. Era una controproposta così surreale che gli stessi mediatori l’hanno definita inaccettabile e si sono rifiutati di trasmetterla ad Israele, mentre il rappresentante americano Witkoff se n’è tornato a casa dichiarando finita la trattativa perché “non c’è nessuno con cui negoziare, Hamas non è in buona fede”. Trump ha commentato: “È chiaro che Hamas non vuole un accordo e preferisce morire. Ora tocca a Israele concludere il lavoro”.
La strategia del terrorismo
Quella di Hamas è una posizione così poco corrispondente alla situazione sul terreno, dove Israele continua ad avanzare e ad eliminare catene di comando e infrastrutture terroristiche, che è necessario analizzarla con cura. Vogliono davvero morire i terroristi di Hamas? Individualmente molti sono disposti a farlo per la loro causa, di questo va dato loro atto, anche se naturalmente negli scontri agiscono in modo da salvaguardarsi il più possibile. Ma collettivamente Hamas non ha affatto voglia di morire, è anzi convinta di poter vincere e si muove con molta accortezza e abilità politica verso i suoi fini. E l’ha fatto anche questa volta.
Il primo obiettivo di Hamas: il pubblico israeliano
La strategia della guerriglia presuppone la consapevolezza di non poter vincere sul piano militare; non a caso i movimenti palestinisti, tutti dediti al terrorismo, nascono sulla base delle sconfitte degli eserciti arabi contro Israele. L’obiettivo della guerra asimmetrica (o terroristica) dunque non è mai da individuare sul piano militare (specificamente non lo era il 7 ottobre e non lo è ora), ma va compreso su quello politico. In primo luogo, i terroristi mirano a uno scopo interno allo schieramento dei loro nemici: disarticolarlo, produrre conflitti, terrorizzare il pubblico generale, opponendolo al governo, dividere la politica dall’esercito, produrre nel pubblico richieste di compromessi, pacificazioni o addirittura rese. Questo primo obiettivo di discordia faceva parte delle condizioni precedenti al 7 ottobre (basta ricordare che il movimento di protesta contro la riforma giudiziaria giunse al punto non solo di invadere il parlamento, ma di promuovere il rifiuto della leva e del servizio dei militari di riserva, in particolare in settori strategici come l’aviazione e i reparti per la guerra elettronica). Ma dal 7 ottobre funziona soprattutto sfruttando il dolore delle famiglie dei rapiti, che vogliono salvare i loro cari a ogni costo, anche al prezzo di compromettere di nuovo la sicurezza del paese con una pace senza condizioni. Mentre ciò è più che comprensibile per i parenti, chi governa lo Stato deve evidentemente pensare al futuro e può chiudere la guerra solo quando potrà dare la garanzia che prevedibilmente non saranno possibili nuove incursioni, pogrom e rapimenti. La strategia di Hamas di prolungare la guerra mira anche a esacerbare questo conflitto e finora ha avuto un certo successo in questo ambito.
La guerra dei media
Il secondo obiettivo politico dei terroristi è l’isolamento internazionale di Israele, la sua condanna generalizzata, l’attribuzione allo Stato (e in genere al popolo) ebraico della colpa per la distruzione di Gaza anche se provocata dalla tattica degli scudi umani di Hamas; per la morte di numerosi civili, la quale era stata dall’inizio non solo messa in conto ma pubblicamente auspicata dai dirigenti terroristi; e per la fame della popolazione, anche se essa pure è provocata da Hamas, sia per trarre profitto economico e potere politico dal filtro che esso esercita dal monopolio sul flusso degli aiuti, sia per suscitare l’indignazione delle persone per bene per la pretesa atrocità delle operazioni dell’esercito israeliano. Una gigantesca campagna di stampa, costruita per lo più su un pompaggio continuo di terribili notizie e immagini false è condotta con lo scopo di deturpare l’immagine di Israele e di fare dei tagliagola di Hamas i difensori dell’umanità, della pace, dei bambini, dei diritti del popolo palestinese.
Le conseguenze politiche
Bisogna ammettere che su questo piano della propaganda Hamas ha vinto largamente la sua guerra. Se non ci fosse in Israele un governo guidato con determinazione da Netanyahu e negli Usa una presidenza Trump non disposta a cadere nei loro trucchi, avrebbero già vinto la battaglia iniziata il 7 ottobre. Questa secondo la tattica della guerriglia, infatti, è solo una tappa di una “lunga marcia” per la distruzione di Israele. Quali che siano i danni subiti da loro e dalla popolazione, se i terroristi riuscissero a uscire da questa guerra restando a Gaza con l’organizzazione ancora funzionante e le armi sufficienti a controllare la Striscia, probabilmente pure col consenso della popolazione fanatizzata che li porterebbero prima o poi a controllare anche l’Autorità Palestinese, allora avrebbero vinto sul piano politico pur perdendo su quello militare. Per questo reazioni “umane” come le ricorrenti denunce dei media della distruzione e della fame di Gaza, dell’“omicidio dei bambini” (che riattiva le calunnie medievali contro gli ebrei) e soprattutto le prese di posizione politiche come il riconoscimento da parte del Francia dell’oggettivamene inesistente “Stato di Palestina” promesso da Macron o anche la lettera dei 28 capi di stato contro le “atrocità di Gaza” sono insieme un grande successo di Hamas e un incoraggiamento a continuare la guerra, anche al costo di subire nuove perdite militari.
Una battaglia difficile ma necessaria
Israele è riuscita a modificare il quadro strategico del Medio Oriente, eliminando le proiezioni imperialistiche dell’Iran soprattutto in Libano e in Siria. Questa rottura delle trattative sui rapiti lo indurrà a concentrare la propria potenza su Gaza per cercare di dare il colpo di grazia a Hamas. È ragionevole, per una nazione attaccata a tradimento su sette fronti da parte di uno schieramento di paesi cento volte più estesi e dieci volte più numerosi, pensare di regolare la situazione prima di tutto sul piano militare. Da questo punto di vista, probabilmente, oltre a finire Hamas, sarà ancora necessario per Israele chiudere i conti con l’Iran, che conserva una certa potenza militare a sostegno di una politica aggressiva che non si è moderata. Ma il problema della propaganda d’odio suscitata da Hamas e ripresa con entusiasmo da tutti i nemici dell’Occidente e gli antisemiti in Europa e negli Usa fino a coinvolgere buona parte della popolazione, non riguarda solo Israele, ma anche gli ebrei cittadini di altri stati. Gli atti antisemiti che si moltiplicano ogni giorno in Francia, Spagna, Belgio, Grecia, Usa e altrove mostrano che la guerra islamista a Israele riguarda tutti gli ebrei. È difficilissimo, in una tempesta di menzogne come quella che viviamo, cercare di restaurare un minimo di verità su quel che accade a Gaza e intorno a Israele. Ma questo è il nostro compito non solo per difendere lo Stato ebraico, ma anche per tutelare noi stessi e la democrazia nei nostri paesi.