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    ISRAELE

    Il peso della parola “Adesso”

    Tel Aviv, Gerusalemme e altre città israeliane sono da settimane teatro di manifestazioni accese. Migliaia di persone scendono in piazza regolarmente, esibendo cartelli con scritte come “Adesso!” o “Riportateli a casa”. È un grido collettivo e disperato per il ritorno degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Familiari, amici e semplici cittadini bloccano strade, presidiano snodi strategici e accusano il governo di non fare abbastanza — o di non agire abbastanza in fretta. Questo movimento, pur composto da anime diverse, si è unito sotto un’unica parola, potente e semplice: “Adesso”.
    “Adesso!”.
    Adesso il governo deve firmare un accordo e riportare a casa gli ostaggi. Adesso bisogna agire, prima che sia troppo tardi. Adesso, perché ogni giorno conta, ogni vita ha valore, ogni minuto in mano ad Hamas è una ferita aperta.
    Chi può rimanere indifferente davanti a questo appello così umano, così giusto?
    Eppure, in Israele – come spesso accade in questa terra complicata – le cose non sono mai così semplici. Anche la parola “adesso” porta con sé una rete di dilemmi profondi, morali e strategici, che dividono il Paese e spezzano il cuore.
    Gli israeliani non sono divisi tra chi vuole riportare a casa gli ostaggi e chi no. Tutti li vogliono a casa. Ma sono divisi sul “come” e sul “prezzo”.
    Oggi, secondo diverse fonti, i termini richiesti da Hamas per un accordo includono la liberazione di centinaia di terroristi condannati per crimini brutali, il ritiro totale dell’esercito israeliano dalla Striscia di Gaza (anche dalle aree a ridosso dei kibbutz israeliani), il mantenimento del potere da parte di Hamas… E, fatto ancor più cinico, Hamas pretende che sia proprio Israele – insieme alla comunità internazionale – a finanziare e sostenere la ricostruzione della Striscia.
    Secondo alcune fonti israeliane, questo significherebbe che il rilascio degli ultimi ostaggi avverrebbe solo dopo la ricostruzione completa – o almeno sostanziale – di Gaza.
    Sono richieste che, nella percezione di molti israeliani, non rappresentano una soluzione, ma la premessa per la prossima tragedia. Per il prossimo 7 ottobre. Per i prossimi ostaggi.
    E allora, cosa significa davvero dire “adesso”?
    Firmare un accordo che salva oggi ma rischia di distruggere domani?
    Oppure resistere, con il cuore a pezzi, e dire “non così, non a queste condizioni”?
    Molte persone vedono solo una parte della storia: la sofferenza delle famiglie, le madri che piangono, i volti dei prigionieri. Ed è giusto che sia così. Ma per capire bene, bisogna entrare anche nel lato scomodo, doloroso, della riflessione strategica.
    In una guerra, e in una lotta contro un nemico che ha già dimostrato di usare le concessioni per colpire di nuovo, ogni decisione ha un prezzo. Anche quelle mosse dal cuore.
    Chi oggi dice “no” a un accordo con Hamas non lo fa perché ha meno compassione. Lo fa perché teme che un accordo sbagliato condanni non solo gli ostaggi di oggi, ma anche quelli di domani.
    In Medio Oriente, anche i mercati obbediscono alla logica del conflitto. Se un venditore capisce che il cliente è disposto a tutto pur di ottenere ciò che vuole – il prezzo sale. Sempre.
    E Hamas, purtroppo, ha capito benissimo come funziona questa dinamica.
    Israele si trova quindi sospesa tra la pietà e la paura, tra il dovere morale e il rischio esistenziale. Non esiste una risposta facile. Ma esiste un nemico che conosce bene la debolezza delle democrazie: la pressione emotiva. E la sfrutta con cinismo.
    Per questo, chi in Israele si oppone a un accordo “a tutti i costi” non è meno umano. È solo dolorosamente consapevole di cosa può succedere dopo l’“adesso”.

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