
La bandiera palestinese esposta in piazza del Campidoglio a Roma, a seguito della decisione dell’Assemblea capitolina per manifestare “vicinanza e solidarietà”, rappresenta un simbolo che va ben oltre gli intenti dichiarati nella mozione. Roma è la Capitale d’Italia, simbolo di civiltà e democrazia, città che porta e racconta nei suoi vicoli, nei muri e nelle piazze oltre 2.000 anni di storia di presenza e di contributo degli ebrei in ogni ambito. La bandiera in Campidoglio è un simbolo che ci racconta anche di due anni di narrativa a senso unico, di distorsioni, di accelerazione verso l’amnesia collettiva del pogrom di Hamas del 7 ottobre e del presente degli ebrei in Europa, in Italia.
Quel vessillo porta con sé ombre inquietanti: negli ultimi due anni, e sempre più quotidianamente, esso è diventato lo sfondo di atti antisemiti, aggressioni contro gli ebrei per le strade, insulti agli studenti, intimidazioni nei confronti dei professori negli atenei e slogan di odio lontani anni luce dalla soluzione per due popoli due Stati, ma che evocano semmai la soluzione finale (a cosa aspira, dopo tutto, chi grida “dal fiume al mare”, se non alla cancellazione dello Stato ebraico?). La violenza cieca di Hamas e il massacro del 7 ottobre 2023 hanno reso chiara la fragilità di chi interpreta la bandiera come simbolo di solidarietà, dimenticando le conseguenze concrete di certi silenzi e ambiguità.
Adesso, un’altra volta, si chiede agli ebrei di abbassare la testa, di aspettare “sotto coperta” che passi, sperando che ciò avvenga senza troppi danni. Ma la storia ci insegna che non è mai così. Che per ogni ambiguità e per ogni viatico alla distorsione, all’antisemitismo mascherato da antisionismo, la Storia presenta il suo conto.
Le vicende di Roma intrecciano storie e anniversari della città e degli ebrei. Tra pochi giorni, il 9 ottobre, ricorderemo l’attentato alla Sinagoga di 43 anni fa, quando un commando palestinese uccise il piccolo Stefano Gaj Tachè. Fu l’odio antiebraico, alimentato da anni di ostilità mascherata da sostegno ai palestinesi, a creare le condizioni per quel vile atto. Come ricordava Gady, fratello di Stefano, scrivendo su questo giornale del primo anniversario del pogrom del 7 ottobre, “fu lo stesso odio a colpire”. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare il memorabile J’accuse pronunciato l’11 ottobre 1982 da Bruno Zevi, proprio nelle stanze del Campidoglio, davanti al Sindaco Ugo Vetere. Zevi denunciò il disinteresse di alcune istituzioni, l’atteggiamento del mondo cattolico, la distorsione dei media e la complicità degli intellettuali nel presentare Israele come unico responsabile dei mali del mondo. Con una frase che resta di straordinaria attualità, impartì una lezione rimasta scolpita nella storia: “L’antisemitismo è esistito per duemila anni, non dal 1948, dalla proclamazione dello Stato d’Israele. Non crediamo all’antisionismo filosemita: è una contraddizione in termini”.
Domani, 20 settembre, ricorderemo la Breccia di Porta Pia, l’evento che nel 1870 sancì la fine del potere temporale della Chiesa e l’ingresso di Roma nello Stato italiano. Tra i bersaglieri che entrarono nella città c’erano giovani ebrei, pronti a combattere per l’Unità d’Italia. Fu Giacomo Segre, Ufficiale del Regio Esercito, a comandare la batteria di artiglieria che praticò la breccia nelle Mura Aureliane. Da quel giorno, gli ebrei romani non furono spettatori, ma protagonisti: figure come Ernesto Nathan, sindaco di Roma dal 1907 al 1913, contribuirono a dare alla città una visione moderna; altri parteciparono al governo, al commercio e alla vita culturale, intrecciando il proprio destino con quello della città. Nel giorno in cui Roma dovrebbe celebrare chi l’ha resa libera e unita, issare la bandiera palestinese sul Campidoglio significa voltare le spalle a chi ha contribuito alla vita di questa città. È come chiudere di nuovo i cancelli appena abbattuti, lasciando soli proprio coloro che un tempo avevano lottato per abbatterli.