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    Il Kippur di Antonietta Raphaël Mafai

    Antonietta (Antoinette) Raphaël, la famosa artista ebrea lituana vissuta a Roma per la maggior parte della sua vita e fondatrice insieme al marito, il pittore Mario Mafai, della cosiddetta Scuola di Via Cavour, era nata a Kovno (Kaunas, la seconda città della Lituania dopo Vilna), dal rabbino Simon e da Khaya Horowitz il 29 luglio 1895, vigilia del 9 di Av. Probabilmente per questa coincidenza di date il suo nome ebraico era Nechama (“consolazione”), da cui il vezzeggiativo con il quale in famiglia era chiamata, in pronuncia yiddish, Nekhòmoleo Nicomola.

    Dopo la morte del padre, si trasferì nel 1905 con la madre a Londra dove già vivevano i suoi fratelli, e lì conobbe il noto scultore Jacob Epstein, che diverrà suo maestro d’arte. Si dedicò al teatro e alla musica, diplomandosi in pianoforte, e soprattutto alle arti figurative, pittura e scultura.

    Nel 1924 trascorse un breve periodo a Parigi per poi trasferirsi a Roma, dove conobbe Mario Mafai. Dalla loro unione nacque nel 1926 Miriam Mafai, a cui seguirono Simona e poi Giulia (Giuditta).Le “tre sorelle”, come verranno chiamate, saranno poi oggetto di numerose opere d’arte di Antonietta.

    Poco dopo la nascita di Giulia, nel 1930, i Mafai andarono a Parigi e dopo qualche tempo, mentre Mario tornò a Roma, Antonietta proseguì per Londra. È proprio da questa città che nel settembre 1930, pochi giorni prima di Kippur, Antonietta scrisse a Mario la seguente lettera, in un italiano ancora un po’ zoppicante:

    Caro Mario alla cimitero della mamma mia non sono ancora stata vi andrò Domenica mattina il 20 settembre. Certamente non dimentichero di pregare per te e tutti di voi. Io andro Domenica mattina presto perché di sera è viggilia di Yom Kipur questi giorno terribile che tutte Israeliti digiunano per25 o 27 ore senza prendere nemeno un gozio d’acqua anche se si sentono male […] Non è una cosa facile, ma io la faro certamente e tu caro Mario vorrei che non prendi Lunedi mattina colazione; cosi amore mio quando staro in Sinagogue [a] pregare mi aggiungerai anche tu forse, pregando insieme e sincere vuoti di materialism. Iddio ci concedera i nostre desiderii perché non credo che siano troppo ambiziossio troppo estravaganti. Domenica mattina non andare in chiesa pensi a Mammamia su di cui tanto io staro pregando.

    Ti abraccio e ti bacio insieme ai nostre carissime figlie.

    Tanti baci a Mamma [la madre di Mario].

    Tua Antoinette

    La partecipazione alle funzioni di Kippur nella sinagoga di Londra diede a Antonietta lo spunto per un quadro divenuto poi famosoche descrive a Mario in una lettera datata Londra 1 settembre 1931:

    Sto facendo una cosa molto interessante, t’ho già scritto: un impressione della sinagogue in yim Kipur sera credo che sara una cosa molto bello, ma è terribilmente difficile. Vorrei tanto che tu foste qui perconsigliarmi, perchési tratta delprospettivo del interno e con le teste, teste e teste: natural piccole e piccolissime, ma ciascuna deve aver la sua espressione […] ognuno esprime un certo dolore, un desiderio per pregare ed essere perdonato; c’è un figurina in distanza molto mistica credo che è la più bella di tutti… 

    (Dall’Archivio Vieusseux di Firenze, trascrizione di Sara Scalia con lievi aggiustamenti sulla base dell’originale).

    Il quadro su Yom Kippur a Londra, insieme a molte altre opere di Antonietta e di Mario e alle immagini delle loro lettere, si trova nella mostra “Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Un’altra forma di amore”, Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi, aperta fino al 2 novembre, la cui visita raccomando vivamente.

    Sulla vita di Antonietta (ma anche di Mario e delle “tre sorelle”), consiglio il bel libro di Giulia Mafai, “La ragazza con il violino” (Skira 2012). In diverse pagine Giulia parla della componente ebraica di Antonietta. Leggiamo di quando Antonietta, da piccola, accompagnava sua madre al mikvè (il bagno rituale), delle cene sabbatiche e del Seder di Pesach. Cene e festeggiamenti che poi Antonietta, da adulta, riproduceva a Roma, con la menorà di ottone per Chanukkà del nonno Rabbi Simon che troneggiava al centro della tavola.

    Veniamo a sapere della maggiorità di Miriam alla sinagoga di via Balbo nel 1937. In un ricordo risalente a metà degli anni ’30 Giulia ci racconta della sukkàche fecero sul terrazzo della dépendance dell’Hotel Salus a Piazza Indipendenza, in cui allora abitavano. Così scrive (p. 61): “Lì in autunno con legni, frasche e foglie secche innalzavamo la capannuccia per la festa di Sukkot, dove a noi bambine era permesso dormire qualche notte”.

    Quanti in quell’epoca a Roma facevano la sukkà, e addirittura ci dormivano? Credo che la sukkà dei Raphaël-Mafai fosse l’unica in città, a parte quelle istituzionali delle (poche) sinagoghe e, forse, quella della casa del rabbino capo (ammesso che ci fosse un balcone adatto).

    Un altro belricordo che Giulia ci trasmette sull’attività artistica della madre da un punto di vista ebraico è il seguente (p. 45):

    Antonietta al contrario [rispetto a Mario] amava quasi fisicamente i propri dipinti, ogni quadro terminato era una gioia, un trofeo, una conquista insperata. Li accudiva con amore, come fossero figli nati da lei, dal suo immenso desiderio, dalla sua volontà. Avvolgeva con tenerezza le pitture finite in asciugami di lino o in vecchie lenzuola di cotone,nascondendole poi in alto sopra gli armadi, dietro i cassettoni, negli angoli più riposti della casa, proteggendole come fossero i sacri rotoli della Torah.

     

    Come altro consiglio di lettura, suggerisco il recentissimo libro di Annalisa Cuzzocrea, “E non scappare mai. Miriam Mafai, i segreti e le lotte nella tempesta della Storia” (Rizzoli 2025), che si apre con il certificato di matrimonio, custodito nella sinagoga di Roma, di Maria (Miriam) Raffaella Mafai con Ugo Lazzaro Nacson, un ebreo italo-egiziano, 7 agosto 1947, rabbino celebrante: Sonnino; testimone: Terracina. Un matrimonio purtroppo finito tragicamente.

    ***

    Qual è la fonte e il significato delle visite alle tombe dei propri cari e dei Maestri prima di Kippur (e di Rosh ha-Shanà), a cui Antonietta teneva molto? L’uso è riportato dal Ramà (Rabbi Moshè Isserles, co-autore dello Shulchàn Arùkh insieme a Rabbi Yosef Karo), sulla base del Maharil (Rabbi Yaakov Levi): “In alcuni luoghi si usa andare presso le tombe, recitare suppliche e fare beneficenza ai poveri” (Orach Chayim, 581:4; e con parole simili a 605:1 dove aggiunge: “e questo è un bell’uso”). Rabbi Israel Meir Kagan (il Chafetz Chayim) annota: “Le preghiere non devono comunque essere rivolte ai defunti ma al Signore Iddio benedetto, chiedendoGli di farci misericordia in virtù dei giusti sepolti là” (Mishnà Berurà 581:27; vedi anche Baer Hetev 581:17). Il Ramà (in Darkè Moshè, Orach Chayim 581:4), riportando le parole del Maharil, scrive che l’uso si impara da Kalev, l’unico dei dodici esploratori, oltre a Giosuè, che non parlò male della Terra d’Israele e che prima di iniziare il viaggio di perlustrazione della Terra Promessa si prostrò sulletombe dei Patriarchi a Chevron per ricevere ispirazione (Talmud Bavlì, Sotà 34b).

    Che il Signore ascolti quest’annole nostre preghiere!

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