
Gli ostaggi israeliani sono tornati a casa dopo due anni di fame e oscurità. Il loro ritorno, accolto con lacrime e bandiere, non ha il tono solo del trionfo, ma quello del sollievo: un respiro spezzato che ricomincia. Le prime testimonianze dei medici e dei parenti raccontano di corpi denutriti, di segni di contenzione, di mesi passati in tunnel sotterranei, senza sapere se il giorno successivo sarebbe arrivato.
“Non ha ancora detto una parola di ciò che è successo in due anni”, ha detto la madre di Maxim Herkin tornato da due lunghi anni di prigionia nelle mani di Hamas. Nel volto scavato, nella pelle tesa sulle ossa, nel tremito delle mani, si intuisce tutto ciò che non si può raccontare. Come anche Alon Ohel che ha subito lesioni all’occhio destro. “Mi hanno tenuto incatenato in un tunnel, da solo, per settimane” ha raccontato ai medici. I carcerieri gli davano da mangiare solo poco prima del rilascio. Matan Angrest ha le dita segnate dalle catene. “Le mani mi facevano male anche quando dormivo” ha detto a suo fratello. Così Hamas li spostava nei tunnel come ombre, da un punto all’altro della Striscia, talvolta vicino al fronte, talvolta dentro una casa civile. Nei reparti di Tel Hashomer e Ichilov, i medici parlano di “denutrizione, disidratazione, traumi da contenzione prolungata”. Ma anche di “voglia di vivere”.
Hagai Angrest, padre del soldato Matan Angrest, racconta che suo figlio ha chiesto e ottenuto un libro di preghiere dai carcerieri di Hamas. Con quella piccola concessione, Matan avrebbe pregato tre volte al giorno, cercando in quelle parole un’ancora nel buio dell’isolamento: “Hanno spostato mio figlio da un luogo all’altro – ha detto il padre – le condizioni erano terribili, subiva torture in continuazione. Angrest ha aggiunto che, al momento del rilascio, il figlio non riusciva a credere di poter scegliere che cosa mangiare, che cosa bere, e che fosse finalmente libero.
Avinatan Or è stato tenuto in condizioni di isolamento totale per la quasi totalità del suo periodo di detenzione. Per due anni interi non ha visto altri ostaggi, non ha saputo quasi nulla di ciò che accadeva in Israele dal 7 ottobre. È stato sistematicamente privato di cibo: il referto medico segnala che ha perso tra il 30% e il 40% del suo peso corporeo, uscendo debole, visibilmente emaciato. Al momento del ricongiungimento con la sua compagna, Noa Argamani, ha chiesto un gesto di normalità quasi simbolico: “la nostra prima sigaretta insieme dopo due anni”. È allora che ha saputo che lei era stata liberata durante l’operazione chiamata “Arnon”. I familiari di Avinatan hanno espresso gratitudine sia a D-o — parlando di “riconoscere la bontà del Signore”— che all’esercito israeliano, ai soldati, agli operatori che si sono impegnati, e al popolo d’Israele che ha pregato, sostenuto e mantenuto viva la speranza.
E poi Rom Braslavski che è stato tenuto prigioniero per due anni da solo, in celle anguste, in condizioni degradanti. Per buona parte di quel tempo gli sono stati accanto solo i corpi di ostaggi morti, quasi come fosse una costante minaccia. Sua madre, Tami Braslavski, riferisce che i suoi carcerieri tentavano di convincerlo a convertirsi all’Islam. “Se digiuni durante il Ramadan, ti daremo cibo, sapone, condizioni migliori”. Rom ha rifiutato ogni proposta, ha insistito sull’importanza della sua identità ebraica — un’identità che, appena liberato, ha riaffermato, mettendo i tefillin subito. Braslavski ha anche parlato di un abuso psicologico intenso: disinformazione sull’esterno — gli veniva detto che l’Iran aveva bombardato Israele, che il paese era distrutto, che i suoi genitori non c’erano forse più. Ha vissuto momenti di terrore e angoscia: in una delle prime settimane, in una piccola stanza (1×1 metro), incatenato a mani e piedi, con cibo al minimo (mezzo pezzo di pane secco, un po’ di riso), niente igiene. Inoltre, è stato nutrito contro la sua volontà nelle ore prima del rilascio, un gesto che ha lasciato strascichi: fluttuazioni di zucchero nel sangue, debolezza profonda e incapacità — almeno inizialmente — di tornare subito a una vita normale.