
Ci sono numeri che non dovrebbero mai diventare abitudine. Dall’Italia furono deportati 8.564 ebrei; ne tornarono poco più di mille. A Roma, il 16 ottobre 1943, furono fermate 1.259 persone: 1.022 vennero deportate ad Auschwitz. Tornarono in sedici. Tra loro, l’unica donna del rastrellamento: Settimia Spizzichino. È a lei che la città ha dedicato un ponte, tra Ostiense e Garbatella. E non è un caso che, dopo un reading con studenti e docenti al Parco Caduti del Mare, ci siamo messi in cammino proprio verso quel ponte: perché la memoria, a Roma, non è un rito fermo. È un movimento.
Alla domanda che molti continuano a porre — perché non ci furono grandi reazioni? Perché così pochi si opposero? — bisogna rispondere partendo dall’inizio giusto. Non si comincia con i carri piombati dei treni verso i Campi. Si inizia con le PAROLE. Con la PROPAGANDA che disumanizza, con la delegittimazione coltivata giorno dopo giorno, con la menzogna che diventa abitudine. Nel 1938 le leggi antiebraiche trasformano il pregiudizio in norma, smontando i diritti elementari allo studio, al lavoro, alla libera professione. Intanto la rivista “La Difesa della Razza” diffonde vignette satiriche che enfatizzano tratti somatici ritenuti tipici dell’ebreo facendolo apparire cattivo, da disprezzare.
Quando, nell’autunno del ’43, i tedeschi arrivano a prendere gli ebrei nelle case, molti non avevano colto il pericolo o non avevano i mezzi per nascondersi; qualcuno denunciò chi viveva sotto falso nome (come il mio bisnonno); molti si volsero per non guardare. Il terreno era stato preparato: è così che si è passati dalla parola al vagone, dallo stereotipo al numero tatuato.
Per questo si organizzano queste commemorazioni. Per restituire un volto e un nome a chi fu spogliato anche della propria identità. E poi abbiamo camminato verso il Ponte Settimia Spizzichino: uno spazio urbano che ha il nome di una sopravvissuta. Tenere insieme scuola, memoria pubblica e luoghi della città è il modo più serio per dire che Roma non dimentica il 16 ottobre e non accetta l’odio antiebraico.
La Shoah è stata un unicum: non si presta a relativizzazioni né a strumentalizzazioni politiche. Non può essere piegata per colpire l’avversario del momento, né ridotta a un gioco di proporzioni. Chi visita Auschwitz e ancora relativizza non ha compreso la natura della “Soluzione finale”: il progetto di estinguere un popolo intero.
La memoria non è un museo: è un diritto e un dovere civile. Sta nelle parole che scegliamo, nelle immagini che non condividiamo, nelle semplificazioni che rifiutiamo. Sta nella capacità di riconoscere i segnali deboli prima che diventino rumore. Camminare insieme, oggi, è un gesto piccolo. Ma è il contrario dell’indifferenza che preparò l’irreparabile. E questo, a Roma, vogliamo che resti chiaro.
Carola Funaro, Vicepresidente della Comunità Ebraica di Roma e Assessore alla Memoria