
I sessantotto anni che separano l’emancipazione degli ebrei nella prima Roma italiana (1870) dall’inizio della loro persecuzione sotto il regime fascista (1938) comprendono tutta la gamma degli stati d’animo dell’ebraismo europeo verso gli stati nazionali dell’epoca: fiducia e gratitudine, anzitutto, poi deferenza, soggezione e infine la più cocente amarezza, destinata a sfociare ben presto in disperazione.
Lungo questa parabola, caratterizzata da un’imprevedibile inversione a «U» della storia (per un ebreo romano di fine Ottocento nulla avrebbe lasciato presagire l’approdo tragico di qualche decennio più tardi), si svolgono le vicende ricostruite da Giordana Terracina in un saggio pieno di dettagli su molte questioni specifiche, dal titolo L’illusione dell’emancipazione. La Comunità Israelitica di Roma dall’avvento del fascismo alla vigilia delle leggi razziali (1922-1938).
Tra i suoi meriti c’è quello di non isolare il periodo centrale dell’indagine, quello che va dal ’22 al ’38, dai decenni precedenti, indispensabili anche per capire il rapporto tra ebraismo italiano e regime fascista. Lo spazio che l’autrice dedica ai primi anni di vita contemporanea delle più importanti istituzioni comunitarie, a fine Ottocento – epoca di galoppante assimilazione – mette in risalto una delle caratteristiche principali dell’ebraismo di quel periodo: l’impegno per l’assistenza ai poveri, che divenne anche un modo per difendersi dalle spinte disgregatrici del mondo esterno.
Sono gli ebrei borghesi, ossia proprio coloro che più sentono il richiamo della partecipazione alla nuova società secolarizzata, a farsi carico di questa esigenza, in una sorta di testimonianza laica del loro attaccamento, se non proprio alla fede almeno all’identità ereditata dalla storia precedente. Si snoda così una serie di iniziative, puntualmente elencate all’interno del volume, che in parte riprendono la tradizione delle vecchie confraternite ebraiche dell’epoca del ghetto e in parte si adeguano alle nuove esigenze.
La prima di queste è la Società per il progresso civile degli israeliti poveri di Roma, fondata negli anni Settanta dell’Ottocento con l’obiettivo di «avviare quanti più giovani fosse possibile all’esercizio di arti e mestieri e di allontanarli dall’antico lavoro di rigattiere…», seguita a breve dalla Società degli asili infantili Israelitici. Una decina di anni più tardi è la volta della fondamentale Deputazione Israelitica di Carità (divenuta in seguito, con denominazione ebraicamente più corretta, Deputazione Ebraica di Assistenza Sociale), poi del Ricovero invalidi (più tardi trasformato in Ospedale Israelitico), della Casa di Ricovero “Di Cave” per puerpere poveree di altre realtà importanti come l’Orfanotrofio israelitico, fondato nel 1902 e notevolmente ampliato alla fine degli anni Venti grazie al lascito dei facoltosi Giuseppe e Violante Pitigliani.
Tutto questo fervore non deve stupire. Nel nuovo clima creato dall’emancipazione gli ebrei di condizione sociale più elevata si sentivano – ed effettivamente erano – giudicati sempre su base collettiva, cosicché il miglioramento della condizione dei confratelli meno fortunati era considerato il primo passo per una felice integrazione ebraica nella società circostante.
Ben più sensibili e drammatiche si rivelarono le ricadute di questa percezione collettiva negli anni del fascismo. Inizialmente il clima tra il regime e gli ebrei – come sappiamo da studi portati avanti ormai da diverse generazioni di storici, diversi dei quali citati in questo volume – è cordiale, quasi amichevole. Al Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica segue, nel 1930, una nuova legge sulle comunità ebraiche di cui, con il senno di poi, si son viste le potenzialità di controllo autoritario, ma che all’epoca fu apprezzata per il rafforzamento offerto a strutture comunitarie zoppicanti da decenni. L’introduzione del contributo obbligatorio imposto a tutti gli ebrei (invocato senza successo almeno da un paio di generazioni di dirigenti comunitari precedenti) fu considerata una benedizione.
È in fin dei conti anche quello un passaggio critico della storia dell’ebraismo italiano, perché una nuova leva di dirigenti comunitari di stretta osservanza fascista andò allora ad affiancare quanti, giovani e meno giovani, avevano iniziato a coltivare già da un decennio la speranza di una rinascita ebraica attraverso l’affermazione del movimento sionista, che la Dichiarazione Balfour aveva catapultato sul proscenio della storia mondiale sul finire della prima guerra mondiale.
Emblematico di quel clima di febbrile partecipazione era stato il caso di Firenze (cui L’illusione dell’emancipazione dedica un paragrafo a parte), dove un gruppo di entusiasti, vinte a sorpresa le elezioni comunitarie del 1920, si era autoproclamato come «Comune ebraico», ossia frazione dell’erigenda nuova patria di cui si stavano gettando le basi con lo Yishuv ebraico in Palestina. Suscitando subito la reazione sdegnata dei correligionari più legati alla vecchia idea di emancipazione (rigidamente interna ai confini nazionali), che ebbero buon gioco a far sciogliere la stessa comunità con un regio decreto.
La distanza tra queste due visioni si sarebbe manifestata in modo assai più lacerante alla metà degli anni Trenta, quando la perdurante simpatia di alcuni verso il movimento sionista fu vista come una colpa imperdonabile da quella parte di borghesia ebraica che nel frattempo si era identificata totalmente con il fascismo. Il caso esemplare è stavolta quello della comunità di Torino (anch’esso trattato in un paragrafo ad hoc), dove ebbe origine la rivista La nostra bandiera, e a seguire il nucleo di un gruppo denominato «Italiani di religione ebraica» rapidamente attecchito anche in altre comunità, a partire da Roma, che a un certo punto cercò perfino di scalzare la vecchia dirigenza dell’Unione delle comunità in nome della presunta necessità di una maggiore ortodossia fascista.
Fu la freddezza e il disinteresse di Mussolini, ormai orientato a perseguitare tutti gli ebrei, quale che fosse il loro orientamento politico, a decretare l’uscita di scena di questa componente antisionista dalle comunità, facendo sì che nelle tempeste degli anni successivi l’ebraismo italiano fosse guidato da una maggiore consapevolezza della propria condizione storica.
È la fine dell’«illusione dell’emancipazione» di cui parla il titolo del libro? Questa è un’interpretazione su cui si può essere d’accordo o meno. Ma se dopo la Shoah gli ebrei hanno potuto ritrovare il proprio posto, con il riconoscimento della loro specifica identità, nell’Italia del dopoguerra, è forse anche perché il terreno era stato preparato prima del fascismo, in quel periodo complesso e travagliato che siamo soliti chiamare età dell’emancipazione. E qualche seme, nell’arco di decenni e pur tra tante contraddizioni, aveva infine germogliato.




			                                        








