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    ISRAELE

    La settimana di Israele: Parole e fatti

    I rapporti con l’Europa
    In politica, in particolare in quel difficile labirinto che è la politica mediorientale, bisogna guardare ai fatti e non alle parole (anche se talvolta, ovviamente, la parole sono fatti). Questo vale anche per un tema delicato come i rapporti fra Israele e l’Europa. A parole (o nei voti all’Assemblea Generale e alle agenzie dell’Onu, che hanno in genere solo il valore di chiacchiere propagandistiche), la maggior parte dei paesi europei si schiera con più o meno forza per la costituzione di uno stato palestinese, o addirittura il suo riconoscimento, come se ci fosse già. Cioè si mette nella posizione di premiare Hamas e di punire Israele. Nei fatti i rapporti sono diversi, salvo l’eccezione di Spagna, Irlanda, Olanda e Slovenia, che sostengono davvero il terrorismo palestinese. Due fatti accaduti la settimana scorsa testimoniano questa diversa posizione.

    Il sistema antimissile israeliano che protegge Berlino
    Il primo è l’inaugurazione del sistema israeliano Arrow 3 vicino a Berlino. Si tratta di un antimissile concepito per distruggere nella stratosfera i missili balistici anche intercontinentali, che nel caso di Israele costituisce il terzo strato della sua difesa missilistica. La Germania ha pagato circa 4 miliardi di euro (la più grande commessa per l’industria bellica israeliana) per 3 batterie di lancio (ciascuna con 4 lanciatori e 6 missili pronti al fuoco), radar e sensori, addestramento del personale e manutenzione per decenni, integrazione con altri sistemi in uso in Europa come IRIS-T e Patriot. Ogni singolo missile intercettore Arrow 3 costa oltre 3 milioni di dollari, ma questo è escluso dal costo base del sistema. E’ questa la prima volta che un sistema israeliano così avanzato viene istallato fuori da Israele e dagli Usa. Ciò testimonia un livello di collaborazione militare fra lo stato leader dell’Unione Europea e Israele molto avanzato, che non è stato affatto incrinato dall’embargo di forniture d’armi allo stato ebraico proclamato dalla Germania l’8 agosto scorso e poi ritirato il 24 novembre, ma è proseguito anche durante questo periodo. E ora molte nazioni pensano a difese dello stesso tipo. Il nostro ministro della difesa Crosetto ha accennato a un costo analogo (4,4 miliardi) per il progetto di uno scudo per l’Italia. Bisogna chiedersi da chi ce lo faremo costruire, dato che è escluso che se ne possa inventare uno partendo da zero. I fornitori possibili in Occidente oggi sono due, Israele e gli Usa…

    La difesa della Grecia
    La controprova è il secondo fatto, un po’ più piccolo ma in parte analogo. E’ stata annunciata nei giorni scorsi l’esistenza di una trattativa fra Grecia e Israele per l’acquisto o lo sviluppo congiunto di sistemi israeliani come Iron Dome (per minacce a corto raggio), David’s Sling (medio raggio) e Barak MX, con lo scopo di creare una “cupola” di difesa integrata contro missili, droni e aerei per un costo superiore ai 2 miliardi di euro. La commessa non è ancora stata firmata ma un passo concreto recente è l’acquisto da 758 milioni di dollari di sistemi PULS (lanciarazzi multipli) dall’israeliana Elbit Systems, annunciato a maggio scorso, che potrebbe essere il primo tassello di questa partnership. Bisogna notare che nell’opinione pubblica greca vi sono forti e tradizionali correnti anti-israelane, mentre il governo e l’esercito conservano ottimi rapporti con lo stato ebtraico. Infatti il nemico che teme la Grecia è la Turchia, che in questi ultimi anni si è sempre più violentemente schierata contro Israele e sta cercando di sostituire l’Iran nel sostegno delle iniziative terroristiche in Siria a Gaza e anche a Gerusalemme. Nel frattempo Israele sta andando avanti con il rinnovamento tecnologico della difesa. A giorni entrerà in servizio accanto a Iron Dome il nuovo laser capace di abbattere droni ostile a scarso costo e con enorme efficienza. L’esercito israeliano ha anche appena annunciato la costituzione di una nuovo struttura per organizzare difesa e attacco con l’Intelligenza Artificiale.

    Libano e Siria
    La differenza fra parole e fatti si riconosce anche a diverso livello nelle dinamiche belliche intorno a Israele. Vi è il problema del Libano, che a parole continua a definirsi in guerra con Israele, ma che non ne può più di dipendere dall’Iran, che domina il paese dei cedri via Hezbollah. Quando Israele attacca dal cielo (e prossimamente forse anche da terra) le roccaforti che i terroristi cercano di ricostruire, il governo libanese protesta per la violazione della sua sovranità; ma in concreto sa che la distruzione del gruppo terrorista è la condizione per riacquistare questa sovranità. Tanto che nei giorni scorsi c’è stato il primo incontro politico ufficiale tenutosi da decenni fra delegazioni libanesi e israeliane, nella prospettiva di cercare una via per la pace e la normalizzazione dei rapporti. Vanno un po’ all’inverso le cose con la Siria. Il regime ostenta ragionevolezza e diplomazia, ma sul terreno dà spazio vicino a Israele a gruppi terroristi, che attentano anche alla sopravvivenza di drusi e cristiane. Il nuovo dittatore siriano Al Jolani piace a Trump e dunque Netanyahu, che si sforza di continuare a lavorare al meglio con il presidente Usa, ha dichiarato di non escludere che si possa arrivare a un negoziato. Ma le condizioni dell’accordo (i fatti) sono l’incolumità dei drusi, il disarmo di tutta la regione di confine fin quasi a Damasco e la permanenza delle truppe israeliane sui punti strategici occupati l’anno scorso.

    Gaza: che seconda fase?
    Anche a Gaza i fatti sono diversi dalle parole. Trump ha parlato di recente di inizio della fase due della tregua, che vorrebbe dire il disarmo di Hamas, lo stabilirsi di un’amministrazione tecnica sostenuta da una forza militare internazionale, il ritiro israeliano e l’inizio della ricostruzione. Ma Hamas ha detto chiaramente che non vuole disarmare, che i militari stranieri sarebbero degli occupanti che esso combatterebbe e che vuol continuare a controllare il governo del territorio, anche senza comparirvi formalmente. Il problema è dunque chi andrebbe a disarmare Hamas (che è la condizione fondamentale di tutto il resto)? Non gli Usa, perché Trump tutto vuole salvo avere dei soldati all’estero a rischio di attentati. Non certo gli europei o i paesi arabi moderati, che temono anch’essi stragi terroriste. Non gli amici di Hamas come Qatar e Turchia, che non lo disarmerebbero affatto e su cui quindi Israele ha posto il veto. Le sole forze oggi capaci di disarmare Hamas e disposte a correre i rischi che l’operazione comporta, sono quelle israeliane. Ma così non saremmo affatto alla fase due delle tregua, semmai alla ripresa della guerra. Nessuno sa come si evolverà il problema, che è evidentemente centrale per la fiune della guerra. La sola certezza è che Netanyahu e Trump ne dovranno parlare nel nuovo incontro previsto (il quarto dell’anno, un record assoluto) e programmato per il 29 dicembre.

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