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SPECIALE PESACH 5784

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    Le acque della Creazione

    In occasione della Giornata mondiale dell’acqua pubblichiamo un estratto del libro di Yarona Pinhas “Onda sigillata”, edito da Giuntina.

    La Torà è maim chayyim, acque di vita

    «Come l’acqua si estende da una estremità all’altra del mondo, così la Torà è vita per il mondo. Come l’acqua discende dal cielo, così la Torà discende dal cielo. Come l’acqua rinfresca l’anima, così la Torà rinfresca l’anima. Come l’acqua purifica dalle lordure, così la Torà purifica l’anima. Come l’acqua fa puro il corpo, così la Torà fa puro il corpo. Come l’acqua scende goccia a goccia e diviene molti fiumi, così con la Torà l’uomo impara due disposizioni legali oggi e due domani, finché diviene una fonte perenne di conoscenza. Come l’acqua non è gradita al corpo se l’uomo non ha sete, così la Torà non è piacevole all’uomo se questi non anela ad essa. Come l’acqua lascia l’alto e scende al basso, così la Torà lascia colui la cui mente è superba e scende a colui la cui mente è umile. Come l’acqua non si conserva in recipienti d’argento e d’oro ma in recipienti di terracotta, così la Torà si mantiene in chi rende se stesso umile come un vaso di terracotta. Come un grande non esita a chiedere dell’acqua anche a chi è inferiore, così per le parole della Torà un grande maestro non dovrebbe esitare a chiedere a uno scolaro di insegnargli un capitolo, un brano, una frase, una parola o anche una lettera. Come per l’acqua se un uomo non sa nuotare rischia di annegare, così per le parole della Torà se un uomo non sa nuotare in esse e venire a decisioni, rispettandole, anch’egli annegherà» (Cantico Rabbà 1:2).

    Maim ghenuzìm: le acque nascoste

    La parola ebraica per vita è חיים ,chayyim: chay, חי ,vivente; yam, ים, mare.

    Nella Torà l’acqua, maim, מים è il cardine simbolico intorno al quale ruotano molti episodi. L’acqua è fonte di vita e sostentamento oltre che culla e matrice di processi spirituali e biologici.

    In Genesi, l’acqua è l’elemento primordiale da cui furono originati cielo e terra.

    Tutto ciò che esiste sotto forma di materia ha la sua matrice nei mondi superiori: «La terra era sterminata e vuota, le tenebre erano sulla faccia dell’abisso e lo spirito di Dio si librava sulla superficie delle acque» (Genesi 1:2). In principio la creazione era un’unità indistinta di acque e solo il secondo giorno Dio separò le acque spartendo sfera superiore e inferiore (ibid. 1:6). Il terzo giorno Egli raccolse l’acqua in un unico luogo, la terra emerse e vennero create forme di vita vegetale. «Il cielo, la terra e l’acqua sono i tre elementi primordiali della creazione; ed essi aspettarono tre giorni e produssero ciascuno tre specie. La terra aspettò tre giorni e produsse alberi, erbe e il Giardino dell’Eden, il cielo si manifesta nel quarto giorno nella veste dei luminari: il sole, la luna e le stelle. L’acqua fu creata il terzo giorno e produsse gli uccelli, pesci e il leviathàn (balena, simbolo dei giusti che meritano l’Eden)» (Genesi Rabbà 12:5).

    Le acque del diluvio sommersero l’umanità corrotta.

    Nell’era patriarcale, i pozzi rappresentarono motivi di discordia e contesa, ma furono anche i luoghi dove Isacco, Giacobbe e Mosè incontrarono le donne destinate ad essere le loro spose.

    La vita di Mosè è indissolubilmente legata alle acque: dal suo essere affidato al fiume al passaggio del Mar Rosso, alla ricerca d’acqua nel deserto.

    L’impiego dell’acqua è alla base di riti quotidiani che ogni ebreo osserva fin dal momento del risveglio come ad esempio, la netilà, l’abluzione delle mani, e il miqvé, il bagno rituale, senza il quale è impossibile immaginare una comunità ebraica.

    I Saggi del Talmud paragonano la Torà ad acqua sorgiva: «Perché la Torà è paragonata all’acqua? Com’è scritto: “Dai la possibilità a tutti coloro che hanno sete di venire all’acqua”» (Baba Kama, 7a).

    La Legge, stabilendo princìpi morali ed etici, educa l’uomo al rispetto degli altri, all’osservanza dei precetti, la convivenza armoniosa con l’ambiente. La Torà è un’autentica fonte di sapienza esistenziale a cui attingere in ogni momento ed è essenziale mantenere le sue acque pure e cristalline.

    La Torà, come l’acqua, riflette la nostra immagine; colui che s’immerge e si abbevera alle acque rinfranca corpo e spirito, colui che s’immerge nello studio della Torà aumenta la sua conoscenza e accede ai più profondi recessi dell’anima.

    Per i mistici, l’acqua rappresenta non solo le parti più segrete e profonde dell’anima e della Torà, maim ghenuzìm, ma simboleggia anche la possibilità di riconciliazione del maschile e del femminile, opposti complementari.

    Maim: «ma» e «mi»?

    La parola ebraica per acqua è מים ,maim, che secondo lo Zohar contiene le due domande fondamentali: ma, מה» , cosa (quale)?» e mi, מי» ,chi?».

    «Chi, mi, è salito all’empireo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nelle sue mani? Chi ha rinchiuso l’acqua nella sua veste? Quale, ma, è il suo nome, qual è il nome di suo figlio, dimmelo se lo conosci» (Proverbi 30:4).

    Ma, «cosa», testimonia la presenza di mi: il «Chi» che l’ha creata.

    Mi è il principio, la fase iniziale di un pensiero che quando si manifesta assume un nome, una forma, un ma, che è al contempo rivelazione e nascondimento.

    Innalzando gli occhi al cielo ci poniamo una domanda come detto da Isaia: «Levate gli occhi in alto e guardate: Chi, mi, ha creato queste cose, ele?» (40:26). Questa frase cela il nome Elohìm, אלהים composto da ele, אלה e mi, מי) Zohar 3): la risposta, quindi, è già nella domanda.

    Ele e mi descrivono due tappe diverse dell’esperienza conoscitiva. Ele è la capacità di focalizzare un processo e di tradurlo in parole, «queste cose», mentre invece mi è un insieme di sensazioni personali che non possono essere condensate nelle parole in quanto perderebbero la loro intensità.

    Il mi rappresenta la sefirà di binà, che in questo caso funge da crogiolo nel quale si depurano e al contempo si amalgamano le intuizioni destinate a trasformarsi in conoscenza vera e propria.

    L’interazione tra ele e mi è un esercizio spirituale che ci guida verso l’elaborazione della tensione tra parola e silenzio, tra dialogo e monologo, tra pluralità e individualità, verso Elohìm.

    Provocare una frattura nel nome divino, tra ele e mi, ha dure conseguenze. Colui che vive solo nella dimensione di ele rischia di cadere nell’idolatria «Ricevuto quest’oro dalle loro mani, lo avviluppò in uno stampo facendone un vitello di metallo fuso; ed essi dissero: “Questo, ele, è il tuo dio, o Israele”» (Esodo 32:4). D’altro canto, chi si concentra esclusivamente su mi dedicandosi alla ricerca spirituale rischia di perdere il legame con la realtà.

    Trasferire la rivelazione intellettuale in linguaggio implica la necessità di rivestire l’idea di una forma: questo è il linguaggio ricco di «ornamenti» dello Zohar, tanto da risultare di ardua comprensione.

    Ogni fenomeno per essere percepito dai nostri sensi deve rivestire una maschera e il principio privo della sua «veste», malbùsh, sarebbe soggettivamente inesistente. Già altrove abbiamo affrontato la tematica della percezione di una «veste» che la Torà definisce ‘av, «nube». Al di sotto della «veste» è il satùm shel kol hastumìm, l’Inderteminato di tutti gli indeterminati, l’Occluso degli occlusi, Principio unico creatore emanato direttamente da Dio.

    Mi è tutto ciò che ha origine dagli estremi dei cieli superiori, ma dagli estremi dei cieli inferiori (Zohar, Bereshìt, haqdama, 3-4).

    La definizione del ma è tutt’altro che semplice, come dimostra l’episodio durante il quale Mosè espone a Dio il problema di dover determinare ciò che è indeterminabile: «Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele e annunzierò loro: “Il Signore dei padri vostri mi manda a voi”, se essi mi chiederanno: ma shmò, qual è il nome di Lui, che cosa dovrò rispondere?» (Esodo 3:13).

    I Saggi spiegano che ma, מה, è un nome divino: in ghematria ha valore numerico quarantacinque come adam, אדם, uomo, e come il Tetragramma quando viene scritto per esteso utilizzando l’alef: יוד הא ואו הא.

    Questo è il ma dell’uomo che aspira ad accedere a chokhmà, sapienza, חכמה : la forza, koach, כח ,di chiedere cosa, ma, מה.

    Quando l’interrogativo «ma?», «cosa?» è posto nel modo giusto, si trova la risposta che è insita nella domanda stessa perché si accede alla fonte della sapienza suprema, la sefirà di chokhmà.

    Lo strumento d’analisi del ma è il pensiero, machshavà, מחשבה : chashav ma, מה חשב ,pensa il ma. Non a caso le lettere di ma compaiono nel nome di Mosè insieme alla shin, simbolo del fuoco della Conoscenza: משה.

    Il sapiente re Salomone ha dedicato un intero libro alla ricerca del ma, il libro di Qohelet o Ecclesiaste: «Quale (ma) vantaggio ha l’uomo da tutta la fatica che compie sotto il sole?… Quello (ma) che fu è quello che sarà, ciò (ma) che è accaduto è ciò che accadrà, non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (1:1-9).

    «O uomo, Egli ti ha fatto conoscere cosa è buono, e cosa il Signore richiede da te se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?» (Michea 6:8).

    Cosa siamo?

    Abramo risponde: «Quantunque io sia polvere e cenere ardisco parlare al Signore (Genesi 18:17).

    Re David risponde: «Mentre io sono un verme, non sono neppure un uomo» (Salmi 22:7).

    Mosè risponde alle lamentele del popolo d’Israele: «D’altra parte noi cosa siamo che mormorate contro di noi?» (Esodo 16:7). Mosè non si identifica con una «cosa» rintracciabile nel mondo naturale, né la polvere né il verme, ma nei termini della domanda stessa: venachnu ma, «noi cosa siamo»,  ונחנו מה.

    Mosè, diversamente da Abramo e David, si pone un interrogativo, una domanda esistenziale spogliando il ma dalla «veste»; dalla metafora naturale eleva il livello della domanda e della risposta investendo il ma di valore assoluto.

    Nella preghiera mattutina, tefillàt ha-shachàr, istituita dall’Arì e chiamata la preghiera dell’assià, dell’esecuzione, il «ma» si ripete otto volte: «Cosa siamo? Cos’è la nostra vita? Cos’è la nostra beneficenza? Cosa sono i nostri meriti? Cos’è la nostra salvezza? Cos’è la nostra capacità? Cos’è la nostra forza? Cosa diremo di fronte a Te, Signore nostro Dio e Dio dei nostri padri?».

    Nella preghiera è implicitamente inclusa anche la risposta: «A noi spetta pronunciare dei canti di fronte a Te ogni giorno, sempre. Felici noi! Com’è buona la nostra parte e com’è piacevole il nostro destino e com’è bella la nostra eredità!».

    I tre «ma» dei quattro figli

    Nella lettura dell’Haggadà di Pesach leggiamo il brano seguente: «La Torà parla di quattro figli: uno sapiente, uno cattivo, uno semplice e uno che non sa porre domande.

    Il sapiente cosa dice: Quali sono le leggi che il Signore nostro Dio vi ha comandato a proposito di Pesach?

    Il cattivo cosa dice: Cosa significa per voi quello che state facendo in questa sera di Pesach?

    Il semplice cosa dice: Cosa significa tutto questo? 

    E quello che non sa fare domande non chiede «cosa» e il padre si rivolgerà direttamente a lui e gli dirà: «È per questo che il Signore si è mosso per me quando sono uscito dall’Egitto».

    Quattro figli, quattro mondi, quattro livelli di comprensione: «Educa il fanciullo secondo la via che meglio gli si addice» (Proverbi 22:6).

    Questa breve storia, che fa parte della liturgia del séder di Pesach, ci dice che ogni figlio percepisce in modo autonomo uno stesso fenomeno dandogli un valore diverso in base alla propria personalità e sensibilità considerate comunque un valore in sé.

    Re David

    «I cieli narrano la gloria di Dio, e l’opera delle Sue mani espone il firmamento. Un giorno riferisce all’altro il detto ed una notte esprime all’altra ciò che essa sa. Non si tratta di veri detti né di parole, la loro voce non si ode. La linea dei cieli è tesa su tutta la terra, le loro parole giungono fino all’estremo del mondo… Possano le mie parole esser gradite e così pure l’espressione dei sentimenti del mio cuore davanti a Te, o Signore, mia rupe e mio redentore» (Salmi 19).


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