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    Le eroine del Ghetto che lottarono contro violenza

    La giornata della violenza sulle donne è un momento per tutte noi e per tutti noi di riflessione sui soprusi di oggi e di ieri. Lo sguardo sul passato può essere lo strumento che ci aiuta ad affrontare il presente dove la discriminazione, la mentalità patriarcale e la piaga dei femminicidi sono ben lungi dall’essere sconfitti. Rimaniamo basite quando si parla di omicidio-suicidio per mascherare un femminicidio o quando spuntano fuori sondaggi in cui per il 40 per cento degli individui lo schiaffo alla partner non è considerato violenza.


    Denunciare è il nostro compito e il coraggio può venire da quelle che potremmo definire “le eroine del Ghetto”, Pacifica Di Castro e Anna Del Monte. Due donne che furono soggette a doppia violenza, quella degli uomini e quella Chiesa della Controriforma. Vale la pena ricordare le loro storie. Ci aiutano due libri, scritti da due donne, “Opporsi alla conversione”, di Susanna Limentani, laureata in Studi Ebraici presso l’Unione delle Comunità Ebraiche, e “Rubare le anime” di Marina Caffiero, professoressa di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma.


    È il 4 novembre 1694 quando il marito di Pacifica Di Castro, Samuel Di Castro, si converte al cattolicesimo prendendo il nome di un illustre cardinale dell’epoca Carlo Antonio Fadulfi. Di conseguenza, il 5 dicembre 1964 vengono convertiti tutti e quattro i figli di Samuel, due del primo matrimonio, due di Pacifica, Angelo di 6 anni e Ricca di 4. Pacifica viene trascinata nella casa dei Catecumeni, al rione Monti, per essere ella stessa convertita. Ma si oppone e dopo 40 giorni viene rimandata in Ghetto. Una resistenza non per nulla scontata visto che non potrà più vedere i propri figli. Non soddisfatto, Samuel dichiara di essere entrato in ghetto e di aver abusato della moglie. Pacifica viene riarrestata e rimessa nella casa catecumenale in attesa della presunta gravidanza. La promessa è quella del ventre pregnante, il marito si è convertito e, grazie alla patria potestà, il figlio che aspetta sarà comunque cattolico, voglia o non voglia la madre. Leggiamo il documento nel libro di Susanna Limentani: “Non bastò tutto questo n’anco per acquietare la fera persecuzione di detto neofito, ma con nuove invenzioni estorse nuovo ordine di farla nuovamente incarcerare supponendo che fosse di lui gravida e perciò fu condotta di nuovo e trattenuta più giorni dentro il Conservatorio della Clemenza. Fatte tutte le debite diligenze fu trovata per essere questa più falsa della prima e con ogni giustizia fu restituita al ghetto. Ne ancor questo fu sufficiente martirio da poter lasciare in quiete la detta povera giovine, ma più volte fu fatta condurre a forza d’ordini criminali dove (…) si passò alle violenze di minacce, poi con comparirgli avanti il Rettore dei catecumeni assieme a detti suoi figli già battezzati e gettarceli addosso. Con tutto ciò non furono motivi bastanti di poter in alcun modo alterare la mente di Pacifica”.  


    Anna Del Monte, 18 anni, si legge nel libro di Marina Caffiero, “viene trascinata da casa sua dai birri che con le armi in pugno minacciarono di arresto i genitori che si opponevano” e portata alla casa dei Catecumeni il 20 aprile 1749. Il rapimento a seguito della denuncia di Sabbato Coen che, subito dopo essersi convertito alla religione cattolica, offrì la fanciulla asserendo che fosse sua promessa sposa. “Una falza denunzia”, scrive Anna nel suo diario. Ma come spiega Caffiero “Una delle forme più frequenti dei battesimi coatti era la pratica delle cosiddette offerte o oblazioni di ebrei alla religione cattolica. (…) Il fenomeno delle offerte fu rilevante soprattutto per le donne. Assai particolare era il caso delle giovani offerte o denunciate da parte di uno spasimante respinto che allegava il pretesto di una promessa di matrimonio, come quello di Anna Del Monte”. Ben lontano dal falso mito di Jessica nel Mercante di Venezia, spiega Caffiero. “Non era per nulla il caso di Anna e si configurava come un vero rapimento”. Per 12 giorni, Anna è rinchiusa nella casa catecumenale e sottoposta a un vero e proprio pressing psicologico, diremmo usando un linguaggio corrente. Ma la nostra eroina fa parte di una delle famiglie benestanti e colte del ghetto e respinge le accuse una per una. Davanti al Padre Predicatore che le spruzza addosso l’acqua santa, scrive che “aveva un aspetto così brutto e spaventevole che pareva un Demonio uscito dall’inferno, una furia d’Averno per rapir l’Anima mia”. Una resistenza che ribalta la storiografia vittimistica sugli ebrei. Una sconfitta per la Chiesa per la quale “le offerte relative alle donne era legata soprattutto alla loro capacità riproduttiva: convertire una giovane donna significava assicurarsi figli cristiani”, come abbiamo visto nel caso di Pacifica. Anna ne esce vittoriosa grazie al sogno premonitore della notte antecedente alla sua liberazione in cui al posto della visione di Cristo che le avevano predetto mettendole il crocefisso sopra il letto, le appare il nonno Sabbatai che “in abito nero e col Segno acceso e cuscito al cappello” le dice di Ascoltare Israele che ormai ha poco più da penare. Anna risponde: “Giudia son nata e Giudia voglio morire”. E fu anche grazie agli uomini del Ghetto, agli ebrei della Congrega della comunità, che interloquirono e protestarono contro le autorità pontificie, che queste donne poterono far ritorno a casa.


    Oggi la casa dei Catecumeni ospita la facoltà di Architettura di Roma Tre, nei luoghi dove avvenivano le conversioni forzate, studenti e studentesse in jeans passeggiano forse ignari di quanto sia avvenuto nei secoli passati, sicuramente liberi e libere di professare la loro fede e la loro cultura, al contrario di Anna, che ci ha lasciato un diario a testimonianza, e di Pacifica. Ma la doppia resistenza di Anna e Pacifica, come donne e come ebree, contro la brutalità maschile e la Chiesa della controriforma nei secoli del Ghetto è un urlo che ci giunge dal passato per ricordarci che la violenza sulle donne è una piaga che assilla l’umanità, una lezione per non farci dimenticare le nostre sorelle che ancora oggi, basta guardare a quanto sta succedendo in Afghanistan, lottano per i loro diritti in tutto il mondo. 

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