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    Freaks Out: “Il mio Israel è un padre culturale” – Intervista a Gabriele Mainetti

    Arriva nelle sale il nuovo film di Gabriele Mainetti “Freaks Out”. Presentato, in concorso, all’ultimo Festival di Venezia, il nuovo film dell’autore di “Lo chiamavano Jeeg Robot”, si distanzia dal grande successo del suo precedente in vari punti: il budget è più adeguato alle esigenze della trama, gli effetti speciali sono più sofisticati e infine la storia, scritta insieme a Nicola Guaglianone, diventa sempre più universale. Rimane un importante punto in comune: Anche “Freaks Out” è una pellicola come non se ne fanno in Italia. “Freaks Out” racconta la storia di un gruppo di “diversi” durante un momento storico, quello della seconda guerra mondiale e l’occupazione nazifascisti (anche) dell’Italia. Shalom ha chiesto al regista Gabriele Mainetti, durante la presentazione del film alla kermesse di Lucca Comics, come mai questa scelta: «Quel periodo è stato decisivo per la storia mondiale, i nazisti hanno osato professarsi una razza superiore…. la diversità doveva essere bandita». 

     

    Nel film una parte importante riguarda i rastrellamenti nel ghetto di Roma. 

     

    È un momento storico da non dimenticare. Quel 16 ottobre 1943, in cui 1.259 persone, tutti ebrei, sono state deportate dalle forze della Gestapo, con la complicità del regime fascista, mi è stato raccontato molte volte e mi sembrava importante metterlo nel film dato il periodo storico in cui era ambientato. La storia di Roma è legata indelebilmente alla comunità ebraica, la più antica di Europa. 

     

    Quindi in “Freaks Out” i diversi non sono solo i suoi “fenomeni da baraccone” ma anche gli ebrei…

     

    Lei considera gli ebrei “diversi”? Io no!

     

    Ovvio che no, ma i nazisti…

     

    Ecco, è anche questo che vuole raccontare il mio film. Che la diversità non esiste. O meglio, che quando entriamo in contatto con la parte più profonda di noi stessi, allora tutti siamo diversi, perché unici.

    Ma fino a dove si può spingere un regista che vuole raccontare temi delicati come la Shoah?

     

    È tutta una questione di rispetto. La Shoah è stata una enorme tragedia. Ma per raccontarla, almeno al cinema, non serve evitare il cinema di genere. Bisogna semplicemente non edulcorarla, non spettacolarizzarla inutilmente. Spielberg per esempio non ha mai negato il genere eppure i suoi film contengono le più alte riflessioni sulla tragedia della Shoah. Per non parlare poi di un film come “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino in cui il genere fa da cornice alla banalità del male che è sfociata nella Shoah. 

     

    Ci vuole parlare un po’ del personaggio, interpretato da Giorgio Tirabassi, dall’iconico nome “Israel”?

     

    Israel ha una lunga storia alle spalle. Nel primissimo trattamento doveva essere un ebreo polacco, di Cracovia. Ma quando ho deciso di ambientare il film a Roma ha cominciato a prendere forma il suo personaggio come lo vedete oggi. Israel è il capo di questa piccola comunità circense ed è lui che i nostri protagonisti cercano di salvare dalla deportazione. Israel diventa cosi un archetipo da “salvaguardare”. È un padre anche culturale. 

     

    Ma, Mainetti, qual è il suo rapporto con la cultura ebraica?

     

    La cultura ebraica ha segnato la cultura mondiale moderna. Si trova ovunque. Sigmund Freund, il padre della psicoanalisi era ebreo. Per non parlare poi di scrittori come Kafka, Philip Roth, Stefan Zweig, Hannah Arendt, in Italia Primo Levi solo per citare alcuni. E poi registi come Steven Spielberg e Stanley Kubrick. 

     

    Infine le immagini finali che richiamano inevitabilmente “Train de vie” di Radu Mihăileanu quanto sono state importanti per questo suo “Freaks Out”?

     

    Che film meraviglioso…

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