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    “Sinagoghe-Chiese-Moschee”: gli spazi di preghiera e le loro vicissitudini

    Luoghi di preghiera e d’incontro indagati come architetture che mutano nel tempo. Sinagoghe, Chiese e Moschee riconsiderate non solo come specchio delle principali religioni monoteiste, ma come edifici che spesso hanno subito il peso del riadattamento a nuove destinazioni. Dopo gli incontri di Toledo e Instabul, Roma ha ospitato una nuova riflessione con il convegno “Synagogue-Church-Mosque: Connections, interactions and transformation strategies” a cura di Olga Melasecchi, direttrice del Museo Ebraico di Roma, e di Sabine Frommel, direttrice di HISTARA – Histoire de l’art, des représentations et de l’administration. Al Museo Ebraico di Roma e alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea, studiosi da tutto il mondo hanno presentato il frutto delle loro ricerche dimostrando come in differenti geografie ci sia il moltiplicarsi di casi e tipologie. 

     

    Dall’antichità all’età contemporanea, questi spazi non hanno solo seguito i mutamenti delle comunità di appartenenza, ma hanno intrecciato le loro vicissitudini con quelli del potere dominante che spesso ha rimosso testimonianze e li ha riadattati a nuovi culti. Emblematiche in questo senso come ha ricordato Andrea Morpurgo (consigliere della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia) le vicissitudini dell’Italia meridionale. Per esempio, il più antico Aron Akodesh (Arca santa che contiene i rotoli della Torah) del 1454, dopo uno spostamento, si trova ora nella chiesa del SS. Salvatore ad Agira. Quella presentata è una prospettiva che guarda a queste tipologie architettoniche, passando anche per processi di cancellazione e interventi di riadattamento. 

     

    Anche analizzando solo la tipologia della sinagoga ci si accorgerebbe che non esiste un modello di riferimento, soprattutto per l’assenza di una normativa rabbinica specifica. Come ha rammentato Rav Riccardo Shmuel Di Segni la distruzione del Tempio di Gerusalemme ha reso irripetibile quel modello, rendendo di fatto i singoli luoghi ebraici il risultato di scelte dettate dal tempo e dal luogo. Nel passaggio all’epoca dell’emancipazione si è reso ancora più evidente l’immissione di nuove configurazioni.

    In questo senso l’architetto Sergio Amedeo Terracina ha dimostrato come l’elemento rimasto costante fino a quell’epoca era il carattere “polifunzionale” della sinagoga, dove alla preghiera si affiancavano momenti di studio e d’incontro.   

    Al di là dei singoli elementi che la compongono, dell’orientamento e dell’assenza di rappresentazione umana, ciascuna comunità da Venezia a Roma ha seguito la propria grammatica compositiva dettata dalle condizioni politiche e dagli spazi a disposizione, anche in un rapporto tra committenti e progettisti. Olga Melasecchi ha sottolineato che un discorso analogo può essere affrontato per gli oggetti realizzati per le Scole al tempo del ghetto, dove artigiani “di formazione non ebraica hanno immesso motivi e modelli diversi rispetto a quelli di riferimento”.

    In questo incontro romano è emerso come per mettere in relazione gli spazi religiosi la chiave d’indagine non può essere unica, ma frutto del lavoro di diverse discipline: dalla storia dell’architettura o delle religioni, passando per l’antropologia.

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