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    Abraham Yehoshua, narratore della società israeliana

    Dal 1948 ad oggi Israele ha attraversato una lunga serie di cambiamenti sociali, culturali e politici: dai kibbutzim alle start-up di Tel Aviv, da Ben-Gurion e Golda Meir a Netanyahu e Bennett, da un paese laico e perlopiù ashkenazita a un meltin’ pot di ebrei dall’Europa, dai paesi arabi e dall’Etiopia, di palestinesi israeliani, haredim e famiglie arcobaleno. Di tutto ciò, delle fratture che attraversano la società israeliana e dei nessi che la tengono insieme, Abraham Yehoshua è stato fin dagli esordi uno dei più grandi narratori. Basti pensare al racconto del 1968 “Di fronte ai boschi” – in Italia pubblicato in Tutti i racconti (2006) – che ha per protagonisti un giovane dottorando israeliano che lavora come guardaboschi e un palestinese che non può parlare perché ha la lingua mozzata. La rappresentazione dei palestinesi, e della complessa situazione nella West Bank, è proseguita con L’amante (1977) – scritto dopo la Guerra di Kippur – e La sposa liberata (2002), uscito dopo il fallimento degli accordi di Oslo, durante la seconda Intifada e l’ondata di attentati che stava colpendo Israele.

     

    Yehoshua si è spesso soffermato anche sulla diversità interna alla società ebraica israeliana e in particolare sui mondi sefarditi e orientali. L’interesse per questi temi è dovuto non solo al peso sempre più rilevante – dal punto di vista demografico, politico e culturale – che i cosiddetti mizrahim hanno assunto in Israele dagli anni Settanta a oggi. Ciò dipende anche dalla sua origine famigliare: lo scrittore era infatti nato a Gerusalemme nel 1936 da un padre di antica famiglia sefardita gerosolimitana e da una madre di origine marocchina, arrivata in Israele da ragazza. Molti suoi romanzi sono dunque costellati da personaggi di origine orientale: di nuovo si può citare L’amante, Il signor Mani (1989) – grandioso affresco multigenerazionale di una famiglia tra la Salonicco ottomana, la Creta degli anni ’40 e l’Israele degli anni ‘80 del Novecento – oppure Viaggio alla fine del millennio (1998), che narra di mercanti ebrei marocchini in viaggio verso l’Europa medievale per risolvere un caso di bigamia. Ne Il responsabile delle risorse umane (2004), l’autore si concentra invece – a partire dalla morte di un’immigrata di origine non ebraica, che rimane vittima di un attentato kamikaze a Gerusalemme – sugli ‘ovdim zarim (“lavoratori stranieri”) che risiedono in Israele in numero crescente dagli anni Novanta e Duemila, con tutte le problematiche identitarie e giuridiche, legate per esempio alla questione della cittadinanza in uno Stato ebraico, che ciò comporta. La migrazione di circa un milione di persone, ebree o in parte di ascendenza ebraica, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e le sfide di questa ‘aliyah sono, infine, tra i temi dello splendido Cinque stagioni (1989).

     

    Abraham Yehoshua ha accompagnato, con la sua vita e le sue opere, tutta la storia d’Israele. Cresciuto durante il Mandato Britannico, visse bambino la guerra del ’48 e da giovane quella dei Sei Giorni e di Kippur. Ha partecipato allo sviluppo del pacifismo israeliano negli anni Settanta e Ottanta, diventando una delle voci più importanti del dibattito culturale e politico del suo paese. Ancor più di questo, Yehoshua è stato un narratore fuori dal comune, capace di spaziare dai racconti surrealisti con i quali esordì alle complesse opere di narrativa, fino ai romanzi brevi degli ultimi anni. Egli ha descritto con amore e ironia Gerusalemme e Haifa, Tel Aviv e il Negev, includendo spesso nelle sue opere anche quell’Europa che aveva conosciuto da giovane studente insieme con la moglie Ika – Parigi, Berlino o infine l’Italia, nel caso di uno dei suoi ultimi romanzi, La figlia unica (2021) – e luoghi lontani quali l’India e l’Africa in Ritorno dall’India (1997) e Fuoco amico (2008). Sia nei romanzi che in opere di saggistica, si è inoltre interrogato sulle relazioni tra Israele e la Diaspora, talvolta con toni accesi e sottolineando la condizione a suo giudizio anormale dell’ebraismo diasporico.

     

    Abraham Yehoshua ha mostrato a lettori sparsi in tutto il mondo come, dal 1948 a oggi, si sia passati dal mito del kibbutz a un paese moderno e tormentato, dove uno dei pochi luoghi in cui convivono israeliani e palestinesi sembra oggi essere – racconta ne Il Tunnel (2018) – un ospedale di Tel Aviv. Con la sua scomparsa, resta l’opera di uno scrittore che per tutta la vita ha raccontato le speranze e i dilemmi di Israele e dei suoi abitanti, a partire da temi universali quali la famiglia, la vecchiaia, la malattia e l’amore. Perché, come dice Molcho, il protagonista di Cinque stagioni: “ci si deve proprio innamorare, altrimenti tutto questo non ha scopo, […] ci si deve proprio innamorare”.

     

     

     

    Dario Miccoli è docente di lingua e letteratura ebraica moderna all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

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