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    Arie Schek: l’autiere ebreo che partecipò alla liberazione dell’Italia

    Il processo di liberazione della penisola italiana evoca numerose storie di ebrei che militarono nell’esercito Alleato. Dall’allora mandato britannico di Palestina, partirono in 40mila, di cui 5mila costituirono la Brigata Ebraica. Tra loro, vi era Arie Schek, oggi ricordato per Shalom dal figlio Eugenio Schek, curatore e Gabbai della sinagoga Beth Shlomo di Milano, che ospita anche un piccolo museo della Brigata Ebraica. Arie Schek era nato in Polonia, durante l’adolescenza fu convinto dagli ideali del movimento di Jabotinski e riuscì ad emigrare clandestinamente nell’insediamento ebraico del Mandato Britannico, partendo da Trieste. Nel nascituro Stato d’Israele si costruì una nuova vita, riuscendo anche ad aprire un’attività che lo rese benestante. Ma nel 1942, con l’arrivo dell’esercito tedesco ad El Alamein, migliaia di giovani si arruolarono volontariamente nell’esercito britannico. «Gli inglesi diffidavano degli ebrei, avevano paura che imparassero a difendersi anche nel conflitto con gli arabi e magari contro di loro» spiega Eugenio Schek. Così «gli ebrei vennero radunati in unità più piccole, cioè compagnie, che avevano però la stella di David fra le insegne». Arie entrò a far parte dei RASC, i reparti che trasportavano uomini e mezzi in prima linea, nella compagnia 650. «Lo stemma sul suo camion rappresenta la stella di David e all’interno un orologio, perché il loro vanto erano puntualità e rapidità» spiega il figlio mostrando la foto del padre appoggiato al camion. Si arruolò subito dopo la seconda battaglia di El Alamein e combatté in Libia, nella battaglia di Tobruk e nella liberazione della Cirenaica. Successivamente, fu mandato a Malta, fino a quando non sbarcò a Salerno. «Mio padre me lo descrisse come una carneficina, un vero e proprio inferno» racconta Schek. «Venne assegnato alla V Armata del Generale Clark con il quale partecipò all’attacco a Montecassino, ma andò male» prosegue. Dopo la sconfitta nel paese laziale, Arie fu rimandato in mare per partecipare allo sbarco di Anzio, che fu il preludio alla conquista di Cassino. «Mio padre passò per Firenze e Bologna, dove si fermò al campo di Borgo Panigale». Subito dopo il 25 aprile, Arie decise di passare lo Shabbat a Milano: proprio nel capoluogo lombardo conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie, Renata Caminada. «Papà arrivò il venerdì pomeriggio a Milano – racconta Eugenio – Parcheggiò il camion di fronte al sagrato del Duomo e si rasò la barba di fronte allo specchietto».

    Purtroppo le sorti della sua famiglia d’origine, in Polonia, erano state segnate tragicamente. «Mio padre seppe che tutta la sua famiglia era stata trucidata dai nazisti; anche mia madre Renata seppe che sua madre Eugenia non era sopravvissuta ad Auschwitz».

    Nel Dopoguerra, Arie insieme ad altri soldati ebrei, aiutò molti sopravvissuti ai campi di sterminio a partire per Eretz Israel, trasportandoli dal Nord Italia travestiti da soldati inglesi per non destare sospetti. Dopo il matrimonio con Renata a Milano, nel 1946, i due partirono, ma la permanenza in Israele durò pochi anni: rientrarono a Milano, dove costruirono la loro famiglia e dove vivono tuttora i loro figli, nipoti e pronipoti. «Conservo ancora le sue medaglie, tra cui tre Stelle di Guerra: una per la Campagna d’Africa, l’altra per quella in Italia e l’ultima per la guerra in generale, oltre a una medaglia d’argento per il Brave Conduct, ossia un’onorificenza civile per la sua condotta coraggiosa durante la guerra» spiega Eugenio, che insieme a immagini d’epoca e al lasciapassare della madre, custodisce il tutto gelosamente nel piccolo museo della Brigata Ebraica all’interno del Tempio Beth Shlomo e che è possibile vedere anche all’interno del sito internet creato ad hoc.

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