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    Il nostro Herbert Pagani e il ritratto alla zia Ivette

    Ricordo Herbert Pagani come cugino ma di fatto non lo era. Le nostre famiglie erano legate da una forte amicizia e, anche se lui viveva prevalentemente a Parigi, ogni volta che tornava a Roma ci veniva a trovare.

     

    Era nato a Tripoli ma l’aveva lasciata nel 1952, prima della cacciata degli ebrei dalla Libia perché il padre voleva che studiasse in Italia. Negli anni Settanta era un ragazzo, aveva i capelli ricci, lunghi e nerissimi come la barba, si vestiva con larghe camicie di lino e pantaloni a zampa d’elefante, tipici della moda rivoluzionaria di quegli anni che avanzava dirompente, ma la famiglia era abituata alle stravaganze dei figli e dei nipoti che dipingevano quadri, organizzavano concerti rock, scrivevano canzoni e disegnavano moda. Erano gli anni in cui la creatività era un fattore determinante che ha portato i miei cugini più grandi, quelli che ho sempre ammirato, a raggiungere successi che neanche loro avrebbero immaginato. David Zard e Herbert erano coetanei e, malgrado avessero tutt’e due la passione per la musica, non sono riusciti a concretizzare alcun progetto insieme, ma hanno continuato a frequentarsi e a volersi bene negli anni.

     

    Herbert si era inventato un programma innovativo su Radio Monte Carlo. Una trasmissione di musica italiana e internazionale, divertente, ironica, piena di personaggi stravaganti. Poi di colpo veniva interrotta dalla pubblicità, anche questa una novità dei tempi portata dalle radio private. Ha fatto scuola a molti altri speaker che l’hanno imitato in seguito su altre emittenti.

     

    Herbert ha scritto canzoni bellissime, descriveva in strofe la psicologia dei personaggi che cantava. Con il suo stile intimistico, ha affascinato artisti del calibro di Mina, Ornella Vanoni, Milva, Dalida. È stato riscoperto recentemente da Fiorello che ha riproposto il suo cavallo di battaglia “Albergo a ore”, una pietra miliare nella storia della canzone. Il brano ebbe molti problemi con la censura, ma il successo fu comunque travolgente. Peccato che ci abbia lasciato così presto, chissà cosa ci avrebbe ancora donato. Ricordo che al suo funerale a Tel Aviv, fu addirittura Shimon Peres a pronunciare l’orazione funebre, mentre la Francia era in lutto.

     

    Il mio ricordo ha, però, a che fare con la pittura perché Herbert era un artista eclettico. Era il 1974 e mia zia Ivette Journo Mineo si era da qualche anno trasferita in un attico in via Portuense, angolo Via Cesare Pascarella, la casa era molto luminosa e ben arredata. Avevo quattordici anni e mi piaceva stare interi pomeriggi a casa della zia in compagnia dei cugini. Herbert Pagani era venuto a trovarla, sempre con la zazzera pettinata alla bene e meglio, una borsa a tracolla di tessuto militare e una grossa cartellina sotto il braccio. Aveva tutto l’occorrente per farle un ritratto estemporaneo.

     

    La fece sedere su una sedia in salotto, prese un grosso pennello e della china nera. Sul foglio bianco diede alcune pennellate decise, così, veloci e nervose, ci mise pochissimo, poi ce lo mostrò divertito.

     

    Ecco, se dovessi descrivere la pittura, le canzoni o gli scritti di Herbert li definirei così: pochi decisi tratti per descrivere con chiarezza un soggetto. Le sue canzoni erano pensate più sulla costruzione di concetti che sulla musica. Ha scritto testi bellissimi, fra i quali la magnifica lettera di difesa d’Israele, anche oggi attualissima. Chiara, netta, forte e vibrante di sentimento, così come era il ritratto alla sua zietta Ivette.

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