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    Il trauma prima della provocazione. Opere di Boris Lurie a New York

    Della produzione artistica di Boris Lurie (1924-2008) è stato spesso mostrato l’aspetto provocatorio e controverso che a partire dagli anni sessanta ha caratterizzato la sua opera. Attraverso il collage ha sovrapposto immagini della Shoah con quelle della cultura popolare – spesso più ardita – che hanno frequentemente infastidito critici e curatori. Uno dei suoi obiettivi dal 1959, quando aveva fondato con Sam Goodman e Stanley Fisher il movimento “NO!art”, era stato quello di mettersi in contrasto con l’espressionismo astratto e la pop art (pur utilizzandone il linguaggio), con il mercato e il sistema dell’arte a favore di un coinvolgimento sociale e politico riportando la riflessione sull’antisemitismo, la condizione della donna e la politica. Il “NO” comparve graficamente su molti lavori a ribadire l’avversione per il mercato e più in generale per un sistema culturale considerato appiattito. Le immagini stridenti, se accostate insieme, sembrarono a molti sconcertanti.

     

    Il pubblico italiano ebbe modo di vedere la sua produzione fin dal 1962 con due esposizioni; la prima a Milano alla Galleria di Arturo Schwarz e la seconda a Roma alla galleria La Salita. A proposito di quest’ultima lo scrittore e giornalista Carlo Laurenzi ne raccontava sul Corriere della Sera evidenziando il contrasto tra le eleganti vie del centro di Roma e la reazione di chi aveva visto i collage: “I visitatori, nella piccola bottega d’arte, sono pochi (s’intende), ma imbarazzati…”.

     

    Una mostra in corso al Museum of Jewish Heritage di New York presenta un buon numero di opere della seconda metà degli anni quaranta che precede questi lavori radicali, riportando l’attenzione sulla sua produzione rimasta a lungo privata. L’esposizione “Boris Lurie: Nothing To Do But Try” va alla radice del disagio di Lurie, rimettendo forse in discussione un percorso che è stato visto solo sotto gli aspetti più forti.

    Le opere rimandano alla sua esperienza personale e al trauma della Shoah. Lurie era arrivato a New York dalla Lettonia, dopo essere sopravvissuto alla permanenza nel ghetto di Riga e a diversi campi. La guerra aveva annientato parte dei suoi affetti: la madre, la sorella e la nonna; gli unici sopravvissuti furono il padre e una sorella che aveva raggiunto nel 1946 a New York, dopo aver collaborato con l’intelligence americana in Europa.  Sono quindi lavori realizzati dopo queste vicende e che riportano la memoria dei campi di sterminio: figure scheletriche, paesaggi inquietanti e volti sofferenti. Una sorta di ossessione e registrazione, forse un modo per fare i conti con un malessere, che avrebbe mostrato anche in seguito ma mascherato da un linguaggio considerato qualche volta ai limiti del buon gusto.

    Tra le opere più care custodite dall’artista c’è un ritratto della madre, che gli aveva suggerito di andare in un campo di lavoro e separare le loro strade. L’artista si era salvato mentre la donna era morta nel 1941 dopo una marcia nella foresta di Rumbula, fuori Riga, fucilata insieme a oltre 25.000 ebrei. Lurie ha quindi vissuto tutta la sua vita con il senso di colpa che portò con sé fino al 2008 quando morì a Haifa. Tenere a mente queste prime opere sarà forse un passo obbligato per cercare un senso, ma faticosamente la completa assimilazione, di ciò che ha prodotto successivamente.

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