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    In ricordo di una cara amica. Giulia Mafai (1930-2021)

    Ho conosciuto Giulia nel 2015, presentatami dalla nostra amica comune Alberta Campitelli. Il primo incontro è stato telefonico, ricordo una voce gentile e profonda, energica e molto cordiale, ogni parola trasudava entusiasmo. Se è vero il detto che la prima impressione è quella che conta, io mi sono innamorata immediatamente di lei e infatti quell’affetto, oltre che la stima, non ha fatto che alimentarsi anno dopo anno.

     

    Giulia mi ha subito parlato dei tanti progetti che aveva nel cassetto, tutti rivolti ad uno scopo che percepivo bruciarle dentro come un fuoco, nutrito anche dall’urgenza di compierli il prima possibile, cosciente del fatto che l’età anagrafica non era dalla sua parte. Dicevo, uno scopo preciso, chiaro come il sole e molto, molto ebraico: onorare il ricordo dei genitori Mario Mafai e Antonietta Raphaël, due grandi artisti anzi due colonne della storia dell’arte del Novecento. In realtà Giulia aveva già fatto molto in memoria degli amati genitori. Un esempio fra tutti la pubblicazione del bellissimo libro La ragazza con il violino (Skira, 2012) in cui aveva ripercorso la storia e le vicende di Antonietta Raphaël dal piccolo shtetl a Kaunas, in Lituania, dove era nata nel 1895, fino agli anni maturi della sua vita costellati da viaggi e incontri con artisti e intellettuali, segnati dall’amore tormentato e totalizzante con Mario Mafai, passando gli anni della guerra che la costrinsero a fuggire e nascondersi all’indomani delle leggi razziali.

     

    Quello delle leggi razziali è stato uno choc che Giulia non ha mai superato. Lei, una bambina di appena otto anni, insieme alle sorelle maggiori Miriam e Simona furono allontanate dalla scuola e poi appunto costrette a rifugiarsi con la madre per salvarsi la vita. Un giorno Giulia mi scrisse un whatsapp che riporto qui di seguito: “Carissima, sistemando delle vecchie carte ho trovato la lettera di Tagliacozzo Fernando che mi aveva scritto molti anni fa perché aveva trovato il mio nome in un elenco di allievi di sua madre che nel 1938 insegnava a bambini ebrei dopo le leggi razziali. Io ricordo poco o niente, ero una bambina molto chiusa e timida”.  A distanza di oltre ottanta anni Giulia continuava a pensare a quello scempio senza trovare pace per l’ingiustizia subita, ma soprattutto per quanti erano stati uccisi da quella barbarie. Lei aveva dovuto rinunciare ai suoi amati libri e ad alcuni anni della sua infanzia, molti pagarono con la morte. Così nel 2020 le venne un’altra idea, quella di donare la scultura LeTre sorelle, realizzata da Antonietta Raphaël nel 1936, al Museo Ebraico di Roma. L’opera rappresenta la figlia più grande Miriam (futura giornalista) intenta nella lettura, dietro di lei le sorelle Simona (futura senatrice) e la piccola Giulia (futura costumista) con lo sguardo basso, rivolto verso il libro. L’artista le ritrasse in un momento quotidiano un gesto semplice e sereno che nulla poteva far presagire cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Da qui la decisione di posizionare la scultura all’entrata della Fondazione Museo della Shoah, in ricordo di tutte quelle giovani vite che non fecero mai più ritorno dai campi di sterminio.

     

    “Siamo testarde, siamo combattenti e poi siamo del capricorno no?!”. Terminava così quasi tutte le nostre telefonate, chiuse da una bella e genuina risata. Ed effettivamente di cose ne abbiamo fatte, ma non nell’ordine con cui le aveva pensate, anzi sognate. “Sono una sognatrice, Giorgia, che ci vuoi fare? Ho ripreso da mamma”.

     

    Con questo spirito, nel 2017 abbiamo realizzato anche la mostra Antonietta Raphaël. Carteal Museo Carlo Bilotti di Roma, prodotta da un giovane art advisor con base a Londra motivato e un po’ visionario come noi. Quello stesso anno uscì anche il suo libro Ebrei sul Tevere (Gangemi, 2017), un racconto straordinario alla ricerca delle proprie radici, un affascinante percorso di conoscenza storica contro ogni forma di pregiudizio.

     

    Prima di andare avanti, devo fare un breve inciso. È curioso il fatto che in questi anni Giulia mi abbia parlato pochissimo della sua straordinaria carriera di costumista e scenografa che le ha permesso di lavorare con i più importanti registi e attori italiani. Salvo qualche divertente aneddoto, non mi ha mai raccontato molto, come se per lei non fosse importante ricordarlo, o per lo meno non importante tanto quanto perpetuare la storia dei genitori. Era cosciente di non avere molto tempo e non voleva disperderlo in “chiacchere”. Aveva una missione e voleva portarla avanti, dunque si concentrava sulle storie di Antonietta, raccontandomi il più possibile con una precisione inverosimile, assicurandosi di non omettere nulla, date, nomi, titoli di opere, luoghi.

     

    Infine è stata la volta dell’ultimo grande progetto che ha coinvolto, per puro caso o forse no, solo donne. Una grande mostra dedicata ad Antonietta Raphaël alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma a cui ci stavamo dedicando da oltre un anno. Il sogno della sua vita che finalmente si realizza, contornata da donne tenaci che ci hanno creduto fin da subito, dalla direttrice del Museo all’addetta culturale dell’Ambasciata di Lituania, fino alle figlie Ariel e Mirta che negli ultimi giorni della sua vita l’hanno aiutata a lavorare, perché per lei smettere era impensabile. In una delle nostre ultime conversazioni, prima che le terribili notizie arrivate dall’Afghanistan la facessero cadere in un drammatico déjà-vu a cui è seguito un aggravamento della sua salute, Giulia mi ha detto: “posso concludere serenamente la mia vita sapendo che la Pinacoteca di Brera sta pensando a papà (si riferiva alla donazione delle Fantasiedi Mario Mafai) e la Galleria Nazionale a mamma”. Cara Giulia, a noi ci rimane tutto questo. Tutto quello che hai pensato e sognato va portato a termine sotto il segno di una grande eredità che poi è quella dei tuoi genitori.

     

    Concludo citando un celebre pensiero di Antonietta Raphaël, e che a mio parere ci restituisce anche lo sguardo di Giulia: “Due cose mi tormentavano da piccola: la Religione e il Sogno. La prima mi è rimasta in eredità dai miei genitori, con la loro grande e incrollabile Fede. E mi è rimasta sospesa come un lucente pendolo d’un orologio invisibile, che si muove incessantemente davanti al mio subcosciente; e senza essere né credente né osservante, regola la mia vita artistica e morale. Ma il sogno, benché mi era proibito di crederci, mi affascinava e mi terrorizzava al medesimo tempo. Ma lo preferivo e lo preferisco tutt’ora alla brutale realtà” (Antonietta Raphaël, dai Diari, 1943).

    Riposa in pace amica mia, che la terra ti sia lieve.

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