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    Lo spazio letterario nell’epoca della pandemia

    Adesso gli spazi letterari e narrativi dovranno dotarsi di nuove convenzioni. Però prima o poi arriverà anche il turno di ogni narrazione incardinata nella contemporaneità più tipica, al cinema come nelle fiction seriali delle TV a pagamento. Tutti i personaggi dovranno infatti necessariamente essere dotati di mascherina, e magari anche di green pass nel caso la sceneggiatura preveda la classica cenetta dell’approccio oppure il date compromettente. Altrimenti l’ambientazione risulterebbe necessariamente anteriore a marzo 2020. Innumerevoli storie di poliziotti e investigatori vedranno le mascherine diventare parte integrante di qualunque uniforme. La mascherina nelle molteplici tipologie –bianco neutro, a tinta unita, spesso coloratissima e vezzosa– resterà il segno ben riconoscibile di un’epoca lunga. Tutte le culture sono passate da una fase esclusivamente orale e visuale ad una fase scritta. Ci sono culture che si esprimono tuttora senza segni alfabetici (Cina, Giappone) e popolazioni erroneamente ritenute prive di segni permanenti per la comunicazione (nativi americani, aborigeni dell’Oceania).

     

    La cultura è soprattutto dialogo, e ogni genere di dialogo, se vuole sopravvivere nella memoria di una collettività, deve trasformarsi in letteratura. La quale non prevede necessariamente una forma scritta, ma come indica il vocabolo stesso deve infine trovare la propria scrittura. Grazie alla scrittura ci si confronta nello spazio e nel tempo: le biblioteche tradizionali fatte di carta e scaffalature non temono la distruzione istantanea di miliardi di files. Anche la nostra Torà è pervenuta alla forma scritta e ha poi dato origine a una sconfinata letteratura di discussione. Dialogo tra un singolo uomo –Mosè—e il Signore dell’Universo, ci fu tramandata in quanto struttura eterna da conoscere e interpretare per mezzo di uno scambio illimitato di ragionamenti, da conservare e ricordare. Il Talmud è dialogico per definizione. Da 20 mesi per dialogare agevolmente dobbiamo prima abbassare una mascherina. E’ un fatto potentemente simbolico e immediatamente visibile.

     

    Gli ebrei possono mascherarsi soltanto in occasione della festa di Purim, memoria conservata per sempre di un continuo scambio e ribaltamento di ruoli. Togliti la maschera, si diceva durante un prima che difficilmente tornerà come è stato, e cioè un dopo presunto a seguire, che certo non si ripresenterà in modi uguali. Dietro eleganti e lunghissimi tavoli allestiti in dimore e storici edifici, i VIP dell’ufficialità istituzionale faticano essi stessi a riconoscersi, se non abbassano la fatale striscia di stoffa delle chirurgiche o lo scomodo becco delle FFP2. La protezione e la salvaguardia della salute fisica sono preliminari e prevalenti sull’osservanza di ogni altra mizvà. La mascherina è ovviamente indumento ammesso dalle prescrizioni del sabato. Si dialogherà, ma avendo indossato in precedenza e forse poi abbassato, distanziati, la propria mascherina. E non si parli mai più di pranzi e cene di gala entusiasmanti e memorabili: the mask potrebbe ungersi o bagnarsi di vino d’annata. In inglese il termine è uno, e uno soltanto. L’italiano invece è lingua sofisticata. “Mascherina” ha un suono in qualche modo buffo, perfino ospedaliero e medicale, ma vale per distinguere un piccolo, tascabile apparato dalle maschere carnevalesche e dalle “maschere” che fino a mezzo secolo fa accompagnavano gli spettatori nei cinema e nei teatri. “Venite pure avanti vezzose mascherette, è aperto a tutti quanti, viva la libertà!” scriveva l’ebreo Emanuele Conegliano (meglio noto al mondo come Lorenzo Da Ponte) per una scena decisiva del Don Giovanni di Mozart. E’ la festa in maschera preparata nel palazzo padronale per i contadini del feudo di Don Giovanni. L’aristocratico libertino, non riconoscibile in maschera, tenta poi la seduzione definitiva di una delle ragazze.

     

    Non si può sfuggire alla logica della letteratura. Si volesse eliminare la scrittura (che è la materializzazione stabile su un supporto fisico dei segni usati per comunicare) nulla sopravvivrebbe indefinitamente nelle strutture della memoria tramandata con la voce. La libertà della festa in maschera, nel 1787, aveva sdoganato a Praga una parola impronunciabile alla vigilia della rivoluzione francese. Libertà. La maschera ci ha liberato dal contagio in assenza di vaccini. Quanti, e sono molti, chiacchierano di libertà negate farebbero bene a ricordarsene. Nell’epoca della pandemia planetaria, i nostri maestri spiegano una volta di più che i continui rituali di purificazione previsti nella Torà esprimono l’esigenza di prevenire il male fisico che nasce dal disordine etico. Covid19 ha trovato per la propria diffusione un ambiente umano governato dall’ingiustizia, dalla ricchezza smisurata di pochissimi, dalla violazione sistematica della natura.

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