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SPECIALE PESACH 5784

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    Novembre 1956: l’Esodo degli ebrei egiziani e quella memoria taciuta che riaffiora

    Probabilmente se nel novembre 1956 non fosse successo nulla non sarei qui a scrivere queste due righe, ricercando i ricordi e a trasmettere non solo cosa sia stato, ma cosa porto dentro e quanto di questo trascorso sia diventato parte del corredo genetico delle mie figlie. La famiglia di mia madre è salpata da Alessandria per l’Italia il 22 dicembre 1956 e arrivata il 26 dicembre. Il compleanno di mia nonna, un compleanno sicuramente molto particolare. 

     

    Nel 1956 mia mamma aveva 12 anni, aveva festeggiato da poco il suo Bat Mitzva insieme alla adorata cugina Denise, con il suo vestito bianco da principessa e la ghirlanda di fiori in testa. Fino alla caduta di Re Faruk nel 1952, gli ebrei egiziani vivevano agiatamente e felicemente. Sinagoghe ad ogni fermata dell’autobus, scuole internazionali, club invernale ed estivo, barca, mare, famiglia e servitù.

          

    Nel periodo estivo gli Zii con i Cugini dal Cairo si trasferivano ad Alessandria, la famiglia si riuniva, simbolo di una infanzia felice. Gli ebrei egiziani vivevano bene, non avevano subito pogrom o angherie razziali come in altri paesi arabi: la situazione è precipitata dal 1952 al 1956, anno dell’espulsione. Anno della diaspora della famiglia della mia mamma, che dal 1956 ha conosciuto la sua parcellizzazione, da tutti uniti e felici in Egitto, a tutti sparsi tra Milano, Parigi, Londra, Toronto, Boston…E non c’era internet, non c’erano i Social…

     

    In poco tempo hanno dovuto lasciare tutto per ricominciare una vita ex novo in un nuovo paese, senza conoscere lingua, usi, costumi, senza conoscere nessuno, senza soldi e senza lavoro. Grande capacità di resilienza, grande prova di forza dei miei nonni che hanno trovato nella loro cultura la carica per affrontare il domani, trasmettendo a noi nipoti il valore e l’importanza della formazione culturale come lasciapassare per la vita.

     

    Io sono nata quasi 10 anni dopo. Da bambina non capivo molto la differenza tra i miei nonni e gli ebrei usciti dall’Egitto a Pesach. Non potevo domandare perché era “honteux” vergognoso…. Le domande ricevevano vaghe risposte, mia mamma parlava francese, ma arrossiva se le chiedevo di parlare in arabo… Sorvolava… in famiglia parlavano francese, ma un francese loro, il francese degli ebrei egiziani, molto colloquiale, mischiato a parole arabe e poi anche italiane, che nella sua peculiarità creava l’unità e l’affiatamento. E così oltre al francese colloquiale parole come Karakeeb, Karkuba, Goha, Cabet, Ialla, sono entrate nel nostro linguaggio comune, solo chi ha un trascorso egiziano può sapere e capire cosa siano i Karakeeb Moreno o cosa/chi sia Goha, il “tonto” di strada…

          

    I racconti sono arrivati con il trascorrere del tempo, il tempo necessario per metabolizzare e voltare la pagina, per iniziare una nuova vita piena di soddisfazioni, con le basi culturali e relazionali che la vita ad Alessandria aveva predisposto. Superare il trauma del distacco, affrancarsi dalla posizione di profugo, considerare con orgoglio l’esperienza passata invece che una vergogna, ha permesso al ricordo di riaffiorare e di essere tramandato, come i diamanti ingoiati da mio nonno prima di salire sulla nave con le 40 valigie di cartone, i sostegni ricevuti appena arrivati a Milano per prendere in affitto la casa, le difficoltà di inserimento. Se il percorso della memoria è stato così complicato, il percorso dei sapori dell’Egitto ha caratterizzato la mia infanzia.

     

    Sapori unici, che custodisco gelosamente ma molti, troppi, mai più ritrovati dopo la scomparsa di mia nonna Odette. Sambusec, roschette di nonna Mami (soprannome che avevo dato a mia nonna), Belehat (polpette di pesce), zucchine di nonna Mami (zucchine ripiene di riso e carne – Mahshi-) la frittata di porri, la lubia con l’occhio e il melograno con zucchero e acqua di rose per Rosh Hashana, sono alcuni dei sapori che sono riuscita a tramandare alle mie figlie.

     

    Mi mancano le Kobeba di Pesah. Prima o poi scoverò la ricetta. Oltre ai racconti, al cibo, al Goha che va e che viene…l’Egitto permette di trasmettere un profondo e serio senso di unità familiare, di responsabilità e sostegno nei confronti del prossimo, sempre con la massima discrezionalità, lavorando e assistendo in silenzio. Questi gli insegnamenti dei miei Nonni, oltre alla formazione, alla cultura, all’attenzione per quel bagaglio culturale molto più profondo e contemporaneamente più leggero delle 40 valigie di cartone. Cultura e formazione ancora di salvezza per ogni tipo di fuga. 

    Grazie Salomone Cohen zl” e Odette Dwek Cohen zl” che il Vostro ricordo sia di benedizione.

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