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    Racconto di due città su tela. Dialogo con l’artista Giorgio Ortona su Tripoli e Roma

    Giorgio Ortona è uno degli artisti più affermati in Italia e all’estero, pupillo di Vittorio Sgarbi, architetto per formazione, pittore per vocazione, è nato a Tripoli e vive a Roma. Lo siamo andati a trovare a casa dove ci ha mostrato le tele che l’hanno reso famoso, quelle delle palazzine romane, ma anche quelle più recenti che riscoprono il rapporto con la sua città natale. 

     

    Qual è il rapporto tra la tua pittura e le città?

    L’atomo della città è il palazzo. A Roma è la “palazzina romana”, così denominata nei libri di storia dell’architettura, maltrattata quando frequentavo la facoltà, ma oggi, giustamente, rivalutata. Città al plurale? Cerco le stesse palazzine, con le stesse caratteristiche perché spesso ben disegnate ed equilibrate, seppur pensate e inserite all’interno di un organismo di alta densità abitativa. È con queste caratteristiche che le cerco anche nelle altre città del mondo, possano essere Atene, Tel Aviv o Napoli, per me fa lo stesso. È quindi un lavoro puramente formale ed estetico e non sociologico.

     

    Quando sei arrivato a Roma?

    Ovviamente nel 1967, durante lo scoppio della “Guerra dei sei giorni”. Partimmo di sera, all’imbrunire, e Tripoli mi lasciò l’impressione di essere una città senza abitanti, senza aria e con tanta polvere. 

    Perché hai scelto di dipingere le palazzine di periferia? 

    Ho scelto quelle per me più interessanti in funzione del mio rapporto con il disegno, che possono anche trovarsi in periferia, ma non è condizione necessaria. Non faccio un lavoro di denuncia, non è il mio intento, anche se può sembrarlo. 

    Cosa ricordi di Tripoli?

    Molto poco, sono soprattutto momenti legati alle sensazioni, l’odore del pane, le passeggiate con mia madre, le luminarie nei bar, le persiane color verde acqua, i due negozi di giocattoli e i soldatini che mio padre mi comperava, ma soprattutto la scatola con i 6 colori Giotto. Anche una capanna, quella degli indiani, che costruii sulla terrazza, ma non era in relazione alla festa di Sukkot. Comunque, festeggiavo con i miei genitori le feste più importanti, ovviamente Kippur, ma anche Pesach, Rosh Hashanà e Chanukkah. 

     

    Recentemente la tua città natale è rientrata nelle tue tele, come mai?

    Sto facendo un lavoro da Google Maps, che sto tentando di tradurre pittoricamente. Ovviamente ho “visitato Tripoli” da più siti oltre a quello già citato, e mi sono accorto che non avevo per niente il timore di percorrerla: sapevo che l’unico rischio sarebbe potuto essere solo lo spegnimento improvviso del computer. Non avrei per nessuna ragione il coraggio di ritornarci, anche se si dovesse ricreare una condizione favorevole e differente da quella attuale, in quanto il dramma di quella fuga è rimasto indelebile nella mia memoria. 

    Quanto è importante l’aspetto ebraico nella tua pittura?

    La condizione di essere ebreo non è rientrata minimamente né nella mia formazione e neppure nella mia attività artistica. Solo recentemente ho cominciato ad elaborare pittoricamente alcune tematiche della nostra storia. Anni fa dedicai una personale ad Emanuele Di Porto, dal titolo “Emanuele salvato dall’Atac”, ed un’altra intitolata “Soluzione Finale” all’Università di Campobasso. Più che al mondo ebraico, guardo attraverso la pittura e certa architettura, come il Bauhaus di Tel Aviv, per me più interessante di quello tedesco perché più povero e decadente, più vicino alle atmosfere delle città del sud del mondo, come quella dove sono nato. 

    Qual è il tuo rapporto con l’ebraismo?

    Il mio è un rapporto ambivalente. Da un lato molto leggero e un po’ ludico, seguo ad esempio in televisione tutte le squadre israeliane di calcio, e certa musica israeliana, ma non quella Klezmer, che non rientra nei miei gusti. Mentre sotto un altro aspetto, ho un rapporto molto profondo attraverso l’elaborazione artistica, che seppur in maniera laica, è autentica dimensione spirituale. Comunque, il mio ebraismo, vissuto sempre al di fuori della ritualità, si rivela come forte forma identitaria di appartenenza, in tutti i contesti che ho frequentato e che frequento. La dimensione cosmopolita della cultura ebraica è stata quella che più ha inciso nella mia formazione. 

     

    Biografia: Giorgio Ortona nasce a Tripoli (Libia) nel 1960. Nel 1986 si laurea alla Facoltà di Architettura. Nel 2011 partecipa alla 54° Biennale di Venezia nel Padiglione Italia e nel Padiglione della Repubblica Cubana. Nel 2012 il lemma Giorgio Ortona viene inserito nell’Enciclopedia Treccani. Nel 2017 il Corriere Della Sera gli dedica una copertina de laLettura. Nel 2009 esegue un’opera assieme a Pino Daniele, che dona all’AIL, e battuta all’asta da Christie’s. Vive e lavora a Roma.

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