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    Viaggi, diaspore, pellegrinaggi

    Il popolo ebraico è, per definizione, mobile. Gli ebrei si spostavano – più o meno volontariamente – per tante ragioni: per affari, per sfuggire ad una persecuzione, per trovare un partner adeguato alla propria condizione sociale ed economica. Alcuni, come il viaggiatore navarrino Beniamino ben Ionà da Tudela, restarono lontani dalla terra natia per molti anni, redigendo poi un diario in cui riassumere la propria esperienza, con un fine che – usando una terminologia moderna – potremmo definire “etno-antropologico”. Gli ebrei, al pari dei cristiani o dei musulmani, mescolavano spesso bisogno economico e curiosità intellettuale. Non era raro che un viaggiatore avesse come scopo dichiarato quello legato alla mercatura, ma che fosse al contempo spinto dalla curiosità intellettuale.

    Ciò di cui vorrei parlare qui, però, riguarda la dimensione del viaggio inteso come pellegrinaggio. Per gli ebrei non venne mai meno l’aspirazione al ritorno alla terra ancestrale. Non tutti, ovviamente, avevano la stessa motivazione: ad esempio, un ebreo senese partito alla volta di Gerusalemme, dopo avere incontrato alcune difficoltà, interpretò queste ultime come un segno divino e fece ritorno a casa, dove per altro – dichiarò – viveva benissimo. Il desiderio di rafforzare l’yishuv fu una costante, e se e quando venne meno, ciò accadde solo a causa di impedimenti esterni, come guerre, divieti emessi dalle autorità locali e così via. 

    A differenza di quanto accadeva nel mondo cristiano e musulmano, infatti, per gli ebrei esistevano due tipi di pellegrinaggio: quello “classico”, che portava a visitare Eretz Israel e la sua città più santa, Gerusalemme, per poi fare ritorno alla terra d’origine; e l’aliyah, che si configurava come uno spostamento definitivo verso la terra dei Padri, per morirvi ed esservi seppelliti. Non va sottovalutato, per quanto riguarda il secondo approccio, l’influenza di movimenti messianici, che vedevano negli eventi contemporanei i segni dell’avvicinarsi della fine dei tempi. Il raccogliere quanti più ebrei possibile, dai quattro angoli della terra, in Eretz Israel, avrebbe favorito l’arrivo del Messia, e conseguentemente la fine dell’esilio. 

    Come esempio delle due modalità di pellegrinaggio mi limiterò qui a proporre due autori: Meshullam da Volterra e Obadiah da Bertinoro, entrambi vissuti nella seconda metà del XV secolo.

    Meshullam da Volterra era un banchiere e mercante di pietre preziose. Colto (dal suo diario apprendiamo che conosceva anche qualche classico latino) ma con una cultura ebraica nella media. Non prese mai in considerazione l’idea di abbandonare la Toscana per trasferirsi definitivamente in Eretz Israel, ma vi si recò almeno due volte. Il primo viaggio ebbe luogo nel 1481 e come si evince chiaramente dalle parole del suo diario di viaggio (una sorta di Lonely Planet ante litteram), lo portò dapprima in Egitto, al Cairo, dove fece ottimi affari acquistando pietre rare ad un buon prezzo, per poi dirigersi a Gerusalemme passando per il deserto del Sinai. Lasciata Gerusalemme, si diresse a Beirut, da dove fece una rapida deviazione alla volta di Damasco, sempre al fine di commerciare in pietre preziose, per poi far ritorno in patria costeggiando il lato orientale dell’Adriatico. 

    Obadiah da Bertinoro fu anche un mercante e banchiere, e per un periodo della propria vita partecipò attivamente agli affari di famiglia, dove ebbe anche un discreto successo. Fu però anche – ed è soprattutto per questo che viene ricordato – il più grande commentatore della Mishnah. Era persona di grande cultura, non solo in ambito ebraico, come si comprende facilmente paragonando il suo stile di scrittura – un ebraico terso e chiaro – con quello di Meshullam, assai meno elegante e zeppo di “toscanismi”. Ad un certo punto della sua vita, Obadiah da Bertinoro decise di abbandonare la famiglia, l’anziano padre, il fratello, con lo scopo dichiarato di recarsi a Gerusalemme e rigenerare la locale comunità ebraica, che versava in condizioni miserevoli. A questo scopo, gli furono di grande utilità i proventi della sua attività di banchiere e mercante. Non scrisse un diario, ma siamo informati del suo viaggio e delle condizioni di Gerusalemme attraverso le lettere spedite ai parenti restati in Italia, datate 1489.

    Due approcci, dunque, fra loro interconnessi, che nel corso dei secoli portarono ebrei provenienti da diversi paesi ad abbandonare – più o meno definitivamente – la patria natia, per riconnettersi con la terra avita e con la propria storia millenaria.

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