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    Elezioni in Israele. Il tramonto dei laburisti

    Le elezioni israeliane sono state oggetto di reazioni passibili di classificazione a seconda delle correnti di pensiero che le hanno espresse: a) tripudio per chi ha visto in Bibi Netanyahu il castigamatti delle sinistre, b) sdegno da parte dei moralisti e c) preoccupazione per chi ne ravvisa un potere eccessivo per l’unica democrazia dell’area, alimentata anche dalla percezione di una crescente divaricazione sociale. Manca la lettera “d” che potrebbe rappresentare i realisti, in una parte di mondo dove il popolo ebraico, in bilico fra esaltazione per i risultati ed insidie esterne, deve comunque affidarsi – come sempre, da sempre – al solo istinto di conservazione. In quel senso, le prima accennate preoccupazioni, per quanto giustificate, sono un prodotto quasi voluttuario per chi vede Hezbollah da una parte, Hamas dall’altra e l’Iran sullo sfondo. In quest’ottica, si può pure capire che sigari, champagne rosé e contestati rapporti coi media, che pur rappresentano una parte delle accuse rivolte al Primo Ministro, sfumino alquanto, per lasciare il posto ad altri pensieri.  Un Primo Ministro, peraltro, che dialoga in inglese con Trump, in russo con Putin e, nei due casi, con grande successo.

    Purtroppo, il tracollo dei laburisti, in questo panorama, è stato liquidato col tono sprezzante che si dedica ai perdenti, ma questo è un atteggiamento che, per quanto sgradevole, fa parte della storia dell’umanità. Succede pure da noi, in Italia, dove l’unica sede dove cercare socialisti e socialdemocratici è quella dei libri di storia, ammesso che qualcuno li legga.

    Il tramonto dei laburisti israeliani è un fenomeno assai pericoloso per l’ebraismo israeliano e per l’ebraismo diasporico. Anzitutto, era ed è un mondo carico di una certa idealità, che si riconosceva anche in una delle sue creature più gloriose: il kibbutz. Anche lì, però, le nuove generazioni sono parse talvolta come i russi dopo il comunismo, abbagliati dal mondo circostante, spesso visto in modo errato come una sorta di paese dei balocchi, quando la realtà era sia più composita che più complicata; magari il vero paese dei balocchi era il kibbutz stesso, anche se la percezione volgeva verso l’esatto contrario.

    Ciò che andrebbe capito e che sembrerebbe che non si voglia e non si possa capire, è che la sinistra laburista era sionista socialista, la cui progressiva scomparsa non lascia al suo posto uno spostamento a destra bensì una mestissima deriva bundista che, nella diaspora, è inscindibilmente corredata ad un’ostilità preconcetta verso lo Stato d’Israele, il quale ha colpa a prescindere e per partito preso. Israele, come è stato più volte esposto, ha preso il posto dell’ebreo nel mondo, vista l’impopolarità dell’antisemitismo, ed è caricato di accuse di ogni tipo, sia che occupi sia che non occupi.

    I sionisti socialisti (l’Hashomer Hatzair, per intenderci) hanno capeggiato, con Mordechai Anielewicz la rivolta del Ghetto di Varsavia, ossia, la prima volta dopo due millenni, che gli ebrei impugnavano le armi. Loro hanno fondato lo Stato d’Israele, loro hanno difeso i confini, loro hanno riportato un successo clamoroso, ripristinando lo Stato d’Israele. Il Bund, invece, ha sempre perso e non ha, anche ora, altro orizzonte che la sconfitta. Certo, i laburisti non hanno fatto tutto da soli, ma la loro partecipazione è stata decisiva. Per questo, il tramonto del laburismo non è da accogliere con gioia, ma con la preoccupazione di salvaguardare, quali che siano le formazioni politiche future, quel patrimonio di ideali che non dev’essere disperso. Fra quegli ideali, il primo è quello di non vedere nella svendita della propria identità e dei propri fratelli il prezzo giusto da pagare per essere accettati dal mondo circostante.

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