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    Il modello “puro” degli studi religiosi e cosa ha veramente detto Rav Izchaq Yosef – Intervista al Rabbino Capo Riccardo Shemuel Di Segni

    Hanno suscitato polemiche e proteste le recenti dichiarazioni del rabbino capo sefardita di Israele, Rishon leZion, rav Izchaq Yosef, che avrebbe detto che bisogna studiare in yeshivà e non serve affatto fare studi laici e che i titoli di studio come la maturità sono inutili. Abbiamo intervistato il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni per comprendere cosa ha veramente detto Rav Yosef e in cosa consiste la questione.

     

     Cosa ha dichiarato veramente Rav Izchaq Yosef?

     

    Stando a quello che riferiscono le agenzie di stampa, nel corso di un suo intervento rav Yosef ha confrontato due istituzioni, la yeshivà tikhonìt “il liceo yeshivà” e la yeshivà “pura”. La prima è una scuola liceale dove il centro dell’insegnamento sono le materie religiose, soprattutto il Talmud e halakhà, ma dove si studiano anche materie “basic” secondo i curricula scolastici israeliani e quindi si arriva a conseguire un diploma di maturità. La seconda è una yeshivà dove si studiano esclusivamente testi religiosi e non si conferisce alcun titolo. Rav Yosef ha detto di preferire questo secondo modello, che non si devono confondere le materie di studio e che non c’è alcun bisogno di diploma di maturità, citando il suo esempio personale.

     

    Che tipo di proteste ci sono state?

     

    Come c’era da aspettarselo le dichiarazioni hanno sollevato un’ondata di proteste, anche in considerazione del fatto che per la sua carica rav Yosef è un’istituzione statale quindi dovrebbe rispettare altre istituzioni dello stato: la yeshivà tikhonìt è riconosciuta e promossa dal ministero dell’istruzione. Le accuse sono chiare: rav Yosef sta denigrando gli studi laici, vuole isolare il mondo osservante e i suoi futuri leader religiosi dalla realtà, vuole produrre un mondo di ignoranti. La polemica è arrivata anche da noi, come sempre in termini semplificati.

     

    In che modo?

     

    La notizia pubblicata e commentata su Facebook ha visto schieramenti opposti: da chi dice guai a chi tocca il rabbino capo d’Israele, a chi l’accusa di essere un retrogrado incivile. Posso anche immaginare che alcuni di quelli che l’hanno criticato non hanno mai messo il piede dentro una yeshivà, di qualsiasi tipo, e forse non hanno mai studiato una pagina di Talmud, e forse tra i difensori degli studi laici c’è qualcuno che in matematica non è arrivato neppure al sei meno meno.  Significativo del livello della discussione è il commento in cui è stato detto che rav Yosef ci riporta al buio medioevale. Ma è un commento sbagliato, perché nel medioevo i rabbini più importanti erano medici, filosofi, astronomi. La polemica non è medioevale, ma molto più recente.

     

    Può spiegare?

     

    Dai tempi dell’emancipazione e dell’illuminismo ebraico, di fine settecento, si è creata una frattura tra il mondo ebraico tradizionale e gli ebrei che si affacciavano al mondo. Le posizioni si sono polarizzate e soprattutto in Europa Orientale è stato difeso ad oltranza il modello “puro” di studi religiosi, da non mescolare e contaminare con qualsiasi altro studio e occupazione. Ma vi sono state anche importanti e autorevoli soluzioni intermedie che hanno visto fiorire il modello cosiddetto “Torà ‘im derekh eretz” che non hanno affatto disdegnato gli studi laici e li hanno anzi considerati parti arricchenti il curriculum rabbinico. L’esternazione di rav Yosef non è che la coda di una lunga polemica nella quale ha preso posizione in favore dell’ala “pura”. Nulla di nuovo sotto il sole.

     

    Una posizione così estrema come la si giustifica oggi?

     

    Bisogna capire, prima di tutto, che il tema della centralità e della prevalenza dello studio della Torà è condiviso da tutti gli studiosi e che si discute sull’utilità degli altri studi, se siano un valore, ma sempre “aggiunto”. La posizione ora rappresentata da rav Yosef si rifà alla tendenza in alcune parti del mondo ortodosso di cercare il massimo, la perfezione, la sublimazione e soprattutto la possibilità di creare in ogni generazione quelli che sono chiamati ghedolè Israel, grandi leader religiosi che possano guidare la comunità. Nel loro modo di pensare, solo scuole di full immersion possono produrre certe eccellenze. D’altra parte nessuno si scandalizza per il fatto che nelle facoltà di ingegneria non si insegni la filosofia kantiana e che nelle facoltà di filosofia non si insegni la meccanica dei fluidi, sono scuole specializzate. Il problema è se sia lecito o opportuno che chi accede a scuole specialistiche di Torà si sia formato o si possa formare anche in altre discipline. Secondo rav Yosef e i suoi, non serve, secondo altri si.

     

    Ma a questo punto che cosa ne pensiamo noi, esiste un modello o una risposta ebraica italiana?

     

    Probabilmente anche per l’Italia esistono risposte differenti, e soprattutto c’è una evoluzione storica di cui tenere conto. Un riferimento e un documento essenziale per la nostra storia è un responso di un rabbino Italiano, Ishmael haKohèn (Laudadio Sacerdoti , Modena 1723-1811, in Zera’ Emet, Yore De’à 107) scritto a commento di due opere del berlinese Naftali Herz Wessely che rappresentavano una sorta di manifesto educativo dell’illuminismo ebraico. In contrapposizione a Wessely, Sacerdoti difende il modello degli ebrei italiani: si insegna ai bambini la lettura dell’ebraico con alcune regole grammaticali essenziali, la parashà settimanale spiegata bene in italiano, poi, con rigorosa propedeuticità, li si introduce alla Mishnà e alla Ghemarà e allo studio della Torà con Rashì; in aggiunta, per “una mezz’ora o un’ora” al giorno gli si insegna a leggere e scrivere in italiano e la matematica. Quando lo studente arriva a 13 anni e si vede che non riesce nello studio delle materie sacre allora va a lavorare e basta che dedichi tempi fissi alla Torà; oppure se il ragazzo è stabile può studiare qualche disciplina “esterna” se vi è portato; se invece è trascinato da uno spirito religioso a dedicarsi interamente alla Torà, vi si dedichi pienamente, studiando anche in modo approfondito la grammatica, “e allarghi il suo cuore nelle discipline esterne, se ha una mente aperta come Maimonide”. Si vede da qui che nel modello italiano, che ha continuato dopo Sacerdoti a produrre per almeno una generazione dei ghedolìm, lo studio delle materie esterne non era affatto disdegnato. Lo studio della Torà aveva il posto preminente, e la formazione rabbinica specializzata non riguardava tutti ma solo elementi selezionati. Poi con l’emancipazione è tutto cambiato e lo studio della Torà è stato messo in secondo ordine rispetto alle materie curriculari, riservando la formazione rabbinica ai collegi rabbinici.

     

    Che differenza c’è tra i collegi rabbinici e le yeshivot?

     

    In entrambi si studia Torà, ma lo scopo del collegio rabbinico è quello di produrre rabbini e insegnanti (anche se negli anni è diventata una scuola aperta a tutti coloro che vogliono studiare senza prendere un titolo) mentre quello della yeshivà è di studiare e basta. Per quanto riguarda gli studi di materie esterne, è interessante notare quanto succedeva un secolo fa in Italia, in cui c’erano due scuole rabbiniche entrambe in Toscana. A Livorno il liceo era interno al collegio rabbinico: rav Alfredo Sabato Toaff che lo dirigeva, il padre di Elio, era anche professore interno di greco. A Firenze nel collegio si studiava solo Torà ma gli studenti dovevano frequentare il liceo (solo quello classico). Tuttora nei nostri regolamenti non si conferisce il titolo di maskil a chi non ha un diploma di maturità (qualsiasi, il greco non è più indispensabile).

     

    Per sintetizzare?

     

    Il modello della nostra tradizione non si è posto in contrapposizione con gli studi laici, e soprattutto di recente li ha considerati un complemento utile alla formazione rabbinica. Anche se questo modello nostro (ma non solo nostro) è in contrapposizione con quello degli studi “puri” caldeggiati da rav Yosef, non bisogna sottovalutare in questa scelta l’istanza della crescita e della ricerca della perfezione.

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