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    La “triste e immeritata sorte” dello shewà e i diritti presi alla lettera

    Ho scelto come titolo per questa noterella un’espressione usata decenni fa da Dante Lattes quando volle aprire una discussione in difesa del mamzèr, la persona che nasce da una grave trasgressione sessuale che deve scontare colpe da lui non commesse. Seguì un dibattito in cui Lattes fu criticato, tra gli altri, da rav Elia Artom (tra i due non c’era grande simpatia). Lasciando da parte il mamzèr, vorrei parlare di un altro “soggetto”, che in questi ultimi tempi è sottoposto, per motivi politici e ideologici, a una sorte triste e immeritata; un segno grammaticale particolare, lo shewà. Prima che chi legge scappi, terrorizzato dalla grammatica, anticipo che la storia che segue è piccante e importante e gli chiedo un po’ di pazienza.

     

    Chiunque abbia un minimo di conoscenze dell’ebraico sa che esiste un segno particolare “ : “ che si mette sotto alle lettere, chiamato shewà, che qualche volta non si legge (shewà nach, “quiescente”) e qualche volta si legge (shewà na’) con un una “e” appena accennata, in modo differente secondo gli usi. Gli ebrei italiani lo leggono apertamente, dicono (o dicevano) Shemàng Israèl, gli israeliani al contrario dicono Shmà Israel. Insomma lo shewà non è una vocale vera e propria, è una via di mezzo tra il silenzio e una vocale pronunciata, una “semivocale”. Il nome stesso del segno, vicino alla parola shav, “senza valore” indica questa sua natura difettosa e incompleta. Questa è la prima parte della storia.

     

    La seconda parte della storia è l’uso che ne fecero e continuano a farlo i linguisti, che rilevano come in molte lingue ci sono vocali appena pronunciate (esempio classico il napoletano mamm’t), e quindi hanno assunto lo shewà, scritto schwa, con simbolo grafico una “e” rovesciata, Ə, per indicare, in qualsiasi lingua, una vocale appena pronunciata e sulla quale sono state costruite importanti teorie sull’origine del linguaggio.

     

    La terza (e per ora ultima) parte della storia è nell’attualità dei nostri giorni, in cui si muove una critica serrata contro il sessismo della lingua parlata, in cui la figura femminile è ignorata o ridotta a ruoli subordinati. In ogni paese vi sono gruppi di pressione che spingono a modificare questa situazione, con varie proposte. Una di queste è l’uso di un segno grafico da mettere alla fine delle parole controverse, che sia inclusivo. Su quale sia il segno grafico si discute, c’è chi propone l’asterisco *, o chi, più scientificamente, lo schwa, solo che vallo a trovare nella tastiera del computer (che sicuramente chiederanno di adattare quanto prima).  Quindi invece di scrivere “molti bambini” nel senso di bambini e bambine, si scriva molt* bambin* , o, come ha fatto poco fa in suo avviso pubblico un comune dell’Emilia, bambinƏ e ragazzƏ  .

     

    Il destino attuale dello shewà che a qualcuno potrebbe sembrare “triste e immeritato” ma ad altri potrebbe sembrare felice, è il risultato di una ideologia che cerca di imporsi e trasformare la lingua, e qualche volta ci riesce, altre volte no. Nel caso specifico l’ideologia vuole eliminare la discriminazione e l’abuso del potere maschilista, e fin qui potrebbe essere condivisibile, ma dall’altro vuole eliminare le differenze tra i sessi, cosa sulla quale si discute molto ma non è poi tanto condivisa neppure nei fronti rivoluzionari (in cui tradizionalmente la rivalità interna supera quella contro il nemico da abbattere). Accanto a chi vuole eliminare le differenze sessiste, nel nome di un gender da scegliere a prescindere dalla propria anatomia, diverse correnti femministe rivendicano la femminilità e il corpo; invece di cancellare le differenze le sottolineano talora con toni “razzisti” e suprematisti nei confronti della mascolinità; per questo, tra l’altro dissentono dalla proposta di legge Zan e non sarebbero tanto d’accordo con lo schwa a fine parola. Tutto questo senza neppure entrare in quello che dice la halakhà sulle differenze sessuali.

     

    Il controllo di come si parla, e delle insidie nascoste e involontarie nel nostro eloquio è una norma precisa della nostra tradizione, si chiama shemirat halashòn. Ogni lingua e modo di parlare vanno corretti, se quando si parla si trasmette ostilità o sottomissione, ma d’altra parte non si deve dimenticare la storia del nostro modo di parlare, in qualsiasi lingua. In particolare l’uso dei generi maschili e femminile, la presenza o l’assenza del neutro, l’evoluzione nel tempo sono argomenti affascinanti che meritano studi approfondati e che non devono essere abbattuti dalle ondate ideologiche controverse e momentanee. Pensiamo in italiano alla parola “fronte”, che quando indica una parte del volto è la fronte, femminile, e quando indica la linea in cui gli eserciti in guerra si affrontano, oggi è il fronte, al maschile, ma nella prima guerra mondiale era “la fronte”, femminile.

     

    La lingua ebraica, in cui il neutro non c’è, rivela aspetti di grandi interesse. Per molti animali, come in italiano, ci sono nomi differenti per maschio e femmina, ma per molte specie la differenza non c’è, e talvolta è femminile (yonà) e talvolta maschile (tor). Ci sono delle parole (la lista è lunga) che possono essere maschili e femminili, qualche volta cambiando genere nel corso del tempo, altre volte nello stesso versetto, come ruach, vento, che in 1 Re 19:11 è ghedolà (grande, al femminile) e chazàq (forte, al maschile). Ogni studente elementare dell’ebraico sa che la desinenza femminile è -ah, per cui si dice yèled,  ילדbambino, e yaldàh ילדה  bambina. E sarebbe segnato come grave errore chi scrivesse na’arà , נערה   ragazza senza la he in fondo. Eppure nella Torà na’arà compare 21 volte senza he finale e tre volte solo in Devarim 22:15-16 con la he, mentre nei Profeti e Agiografi tutte le 23 volte con la he. Secondo lo Zohar (I 38b) la he arriva alla na’arà quando la ragazza che ha avuto un rapporto sessuale; commenti successivi precisano che si deve trattare di un rapporto lecito. E poi c’è il caso eclatante di  hu,  הואscritto he waw alef, che non distingue nella scrittura tra lui e lei, e ha senso femminile ben 200 volte, con la masorà che impone di leggerlo hi, mentre  hi,  היאscritto he yod alef compare solo 11 nella Torà, mentre nei Profeti e Agiografi, di nuovo, il rapporto si inverte e ci sono 3 volte hu e 278 hi. I linguisti suppongono che nell’antichissima lingua ebraica per certe situazioni non ci fosse differenza di sesso, na’ar identificava il/la giovane adolescente, hu la terza persona, e solo dopo è stata introdotta la distinzione. 

     

    Le lingue che parliamo e scriviamo sono il risultato di processi evolutivi millenari, si possono anche cambiare a rigore di decreti e di ideologie, ma poi sarà il tempo galantuomo a fare giustizia.

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