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    Rosh ha Shanah: rinascere, sempre noi stessi, ancora una volta

    Restare sempre se stessi ma anche cambiare continuamente: è la condizione propria degli umani. Quando la mattina ci svegliamo siamo in genere coscienti di essere la stessa persona che si è addormentata la sera precedente. Ma siamo anche altro: vecchie cellule sono morte e nuove cellule le hanno sostituite. Riusciamo a vivere solo in virtù di una capacità trasformativa che garantisce la continuità individuale e collettiva. Siamo uno strano dosaggio di persistenza e mutazione; e se ciò è vero a livello fisico/biologico, lo è ancora di più a quello emotivo/identitario: percepiamo ogni oscillazione interiore pur essendo consapevoli dell’unità del nostro io. Questo impasto esistenziale – verrebbe da dire all’incrocio tra il minerale, il vegetale e il vivente – mi pare espresso con chiarezza dal senso profondo di Rosh ha Shanah. Il primo giorno di Tishrì celebriamo la nascita di quell’umanità che, mantenendo la sua identità, si è al contempo trasformata nel corso dei millenni. Un po’ come il simbolo della Menorah secondo la interpretazione di R. Shimshon Refael Hirsch: un oggetto di oro, materia inerte, in forma di albero e boccioli che fioriscono, e dunque si trasformano. Non è un caso che Rosh ha Shanah inauguri i dieci giorni di Teshuvah: ritornando al momento zero della storia dell’uomo si apre uno spazio di riflessione e di cambiamento profondo. Pentirsi, parola non del tutto adatta a rendere il senso del termine ebraico, è tonare indietro per prendere una nuova direzione. In altri termini significa essere capaci di rinascere, sempre noi stessi, ancora una volta. Venire iscritti nel libro della vita – l’augurio/speranza che caratterizza la giornata – non significa tanto voler continuare la nostra esistenza come copia della precedente, quanto essere in grado di persistere in una nuova prospettiva. È per questo forse che la Teshuvah profonda, per amore e non per timore, secondo i Maestri trasforma le colpe in meriti.

     

    In questa linea di interpretazione è significativo che il termine shanah, con cui indichiamo l’anno – Rosh ha Shanah è letteralmente il capo d’anno – derivi da una radice paradossale, da quello che si potrebbe chiamare un ossimoro semantico: significa tanto ripetere quanto cambiare. Ma come può la stessa parola avere due valori così evidentemente in opposizione: ripetere è nel segno del sempre uguale, cambiare in quello della trasformazione. La lingua ebraica, la lashon ha qodesh, non è però – nella prospettiva dei Maestri – un sistema convenzionale di segni: le parole non sono arbitrarie ma necessarie perché contengono il senso profondo dei fenomeni/cose che indicano. E dunque quel Shanah/anno – che è il ciclo del movimento della terra intorno al sole, eternamente uguale a se stesso, ma anche la dimensione temporale in cui si dipana la nostra esistenza – deve essere celebrato nella consapevolezza che la chiave del suo senso non è nell’immutabilità del tempo/esistenza, nella rigidità del sempre identico. L’invito mirabile che ci rivolge la lingua/tradizione ebraica è di mantenere l’identità ed allo stesso tempo cambiare: non è impegno da poco. Significa essere capaci di coniugare individualmente ed a livello collettivo tradizione e creatività, immobilità e movimento, cerchio e linea. A Rosh ha Shanah nella testa – rosh – e nel cuore dovremmo avere ben presente questa incredibile opportunità, solo in apparenza contraddittoria, di continuità/cambiamento: shanah. È così che potremo aspirare ad essere iscritti nel libro di una vita piena di senso.

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