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    Viaggio nell’Odessa ebraica

    I cavalli di frisia, i sacchi di sabbia davanti alla famosa scalinata di Odessa progettata da Francesco Boffo e Avram Mel’nikov riportano alla memoria le immagini in bianco e nero del celebre film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, la corazzata Potëmkin. Il regista, di padre ebreo poi convertitosi al cristianesimo ortodosso, maestro del cinema muto è stato oscurato in Italia dalla parodia di Fantozzi e le immagini della scalinata, il montaggio incrociato, i cosacchi e la madre con la carrozzina, inevitabilmente fanno ricordare al grande pubblico il ragioniere interpretato da Paolo Villaggio che si sognava la partita di calcio e la famosa frittatona di patate e cipolle negata dal capoufficio cinefilo. Da studentessa universitaria, ci rimasi molto male quando scoprii che la Corazzata non durava tre ore, ma era un film brevissimo e bellissimo di un’ora e 15 minuti. 

    L’immagine di Odessa è lì, legata ai cavalli di frisia di oggi e alla Corazzata di ieri. Il nostro viaggio, però, non si ferma al cinema, ma investe anche la letteratura e la politica. Protagonisti sono i due ebrei di Odessa dal destino contrapposto: Isaak Babel’ e Vladimir Evgen’evič Žabotinskij, parte di quella comunità che prima della Shoah costituiva il 30 per cento della popolazione della città. 

    Babel’ la dipinge nei racconti di Odessa, scritti tra il 1923 e il 1932, i protagonisti sono i banditi della Moldavanka, come il re Benja Krik, la sorella Dvjoria, l’orbo Froim Grac o i vecchietti che cercano, dopo la rivoluzione, di sbarcare il lunario truffando sui funerali, atmosfere che ricordano molto quelle di Isaac Singer. Babel’ si definiva giornalista e diceva che non poteva inventare niente e che prendeva a prestito tutto ciò che gli veniva raccontato. Ma Babel’ è soprattutto un rivoluzionario che sopravvive al Pogrom del 1905 nascosto da vicini cristiani, che non riesce a iscriversi all’Università di Odessa perché c’è un tetto massimo di studenti ebrei che possono essere ammessi e deve andare a Kiev. Combatte nella guerra civile russa e come giornalista segue la campagna di Polonia per portare la rivoluzione fuori dai confini nel 1920, scrive L’armata a cavallo dove non nasconde la brutalità della guerra. Al suo ritorno, Babel’ collabora con Sergej Ėjzenštejn per il film Il prato di Bezhin e lavora alle sceneggiature di altri film sovietici. Ma poi finisce sotto le purghe staliniane che non lo risparmiano e viene fucilato nel 1940, vengono sequestrati gli appunti e i manoscritti e non si saprà nulla di lui per molti anni, soltanto nel 1954, un anno dopo la morte di Stalin, viene riabilitato. 

    Vladimir Evgen’evič Žabotinskij, anche lui di Odessa, non partecipa, però, alla rivoluzione, ma è sionista convinto. Costituisce l’Organizzazione Ebraica di Autodifesa, un gruppo militante che deve salvaguardare le comunità della Russia dai pogrom. Si batte per i diritti civili della popolazione ebraica. Il suo slogan è: “meglio avere un’arma e non aver bisogno di usarla che averne bisogno e non averla!”. Nel 1938 vuole organizzare l’emigrazione di tutti gli ebrei dell’est Europa in Palestina, risuonano profetiche le sue parole del 1938 quando avverte gli ebrei polacchi di vivere sul bordo di un vulcano. Diventa capo dell’Irgun, muore a New York nel 1940 e la sua salma è traslata in Israele nel 1964. Ma ci resta anche la sua Odessa descritta nel magnifico romanzo “I cinque” tradotto in italiano da Voland, che narra la storia della famiglia Mil’grom, emblema della borghesia ebraica, e le vicende dei suoi cinque figli. Nel romanzo, spicca la descrizione in due capitoli della Corazzata Potëmkin, di quella notte di disordini, della repressione, che non avviene sulla scalinata come nel famoso film, ma tra i vicoli e nel porto. “Quando sotto di noi e a sinistra, vicine, risuonarono le prime raffiche, la folla ammutolì ancora per un istante (…). Sono mitragliatrici? No, fucili e viene definito sparare a raffica”. E come scrive Žabotinskij nel suo romanzo: “Non amo ricordare quella giornata, non mi piace in modo superstizioso (…) Avevamo creduto che fosse il Giorno – l’aurora delle aurore, il cominciamento di realizzazioni lungamente attese (…) Non avevamo previsto che il suo corale, iniziato con una campana a martello, quella sera stessa sarebbe degenerato in un balordo ululato da taverna”. Parole che sembrano scritte oggi come monito contro la guerra.  

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