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    Bizzarrie diplomatiche: per l’Australia Gerusalemme non è più la capitale di Israele

    Gerusalemme secondo l’Australia

     

    L’Australia ritira il riconoscimento che aveva concesso un paio d’anni fa al fatto che Gerusalemme sia la capitale di Israele e ritorna alla bizzarra teoria per cui questa capitale sarebbe Tel Aviv, incassando naturalmente il plauso dell’Autorità Palestinese, per la quale va bene ogni cosa che costituisca un danno per lo stato ebraico. Ma il danno è puramente simbolico, perché l’Australia non aveva mai trasferito la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e dunque il cambiamento è puramente virtuale: questione di parole. Vale la pena di notare però che in anni tutti pieni di successi diplomatici e aperture di relazioni con nuovi paesi a partire dagli “Accordi di Abramo”, questa è la prima cattiva notizia per Israele sul fronte diplomatico. Bilanciata senza dubbio dall’annuncio recente del nuovo primo ministro della Gran Bretagna, Liz Truss, di avere intenzione di spostare l’ambasciata del suo paese da Tel Aviv a Gerusalemme. Proposito cui si sono peraltro pubblicamente opposti il primate cattolico di Inghilterra, cardinale Vincent Nichols e soprattutto con molta veemenza quello anglicano, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby.

     

    Perché la questione della capitale?

     

    Che ogni stato abbia diritto di scegliersi una capitale entro i suoi confini, è ovvio. L’Italia non ha chiesto a nessuno il permesso per trasferirla da Torino a Firenze nel 1866 e poi da Firenze a Roma nel 1871. I numerosi nuovi stati che si sono costituiti negli ultimi decenni hanno deciso liberamente quale era la loro. La Germania unita ha spostato la capitale da Bonn a Berlino, la Croazia l’ha scelta a Zagabria, il Kossovo a Pristina, il Vietnam ha privilegiato Hanoi su Saigon: si tratta di esempi di stati formati o uniti dopo crisi, guerre, dissidi internazionali. Bisogna sottolineare che le istituzioni dello stato israeliano (parlamento, governo, corte suprema, banca centrale ecc.) hanno tutte preso sede a Gerusalemme da subito dopo la conclusione della guerra civile (quando la città vecchia di Gerusalemme era stata conquistata e devastata dai giordani e quella nuova assediata). Solo la sede centrale del Ministero della Difesa, col comando militare, è rimasta a Tel Aviv, per ragioni di sicurezza) Bisogna anche dire che tutte le istituzioni statali sono nella parte nuova della capitale, cioè in quel territorio che appartiene a Israele dal 1948 e non nei quartieri liberati nel 1967, come la città vecchia. Dunque la capitale è al di qua della “linea verde” che molti stati, inclusa la Comunità Europea e gli Usa vorrebbero fosse la base di un futuro accordo di pace coi palestinesi.

     

    Ma Gerusalemme fa eccezione

     

    E però tutto questo non basta. Ci sono stati dei piccoli scandali o incidenti dimostrativi, come quando lo stato italiano ha mandato documenti ai suoi cittadini residenti in città (e per giunta nella zona nuova) indicando nel loro indirizzo “Gerusalemme, Palestina” o in maniera più ipocrita “Gerusalemme, XXXX” come se non se ne potesse neppure nominare lo stato. O come quando gli Usa hanno rifiutato di specificare sul passaporto dei suoi cittadini nati a Gerusalemme che essi venivano da Israele. In sostanza molti paesi a proposito della capitale di Israele si rifiutano di riconoscere non solo lo status quo che si è formato con la Guerra dei Sei Giorni, cinquantacinque anni fa, ma anche il risultato della guerra di indipendenza, di vent’anni precedente. I fatti poi non interessano a nessuno: gli ambasciatori vanno a presentare le credenziali nel palazzo presidenziale che sta nel bel mezzo di Gerusalemme, ma poi tornano a vivere a Tel Aviv.  Le ragioni di questa strana miopia non sono probabilmente solo le pretese musulmane su Gerusalemme, difficilmente sostenibili in quanto la città non è mai stata capitale di alcuno stato islamico e neppure di una sua provincia,  ma anche quelle cristiane. Il Vaticano non ha mai davvero rinunciato all’idea di fare di Gerusalemme un’enclave internazionale, su cui poter esercitare la sua influenza; e questa speranza è condivisa con molte altre Chiese, anche per ragioni teologiche: l’autogoverno ebraico di Gerusalemme falsifica le affermazioni tante volte ripetute nei secoli, di condanna degli ebrei all’esilio eterno.

     

    Quel che importa davvero

     

    I problema della capitale è dunque oggi soprattutto simbolico. Quel che conta davvero per stabilire i diritti di uno stato sono le alleanze, i rapporti sul terreno, l’economia, la tecnologia, la capacità di autodifesa. Ma essa ha certamente anche una sostanza politica, che va guardata in faccia. Chi vuole affermare il pieno diritto degli ebrei al loro stato, e dunque considera il popolo ebraico una nazione legittima,  accetta che la sua capitale sia Gerusalemme, com’è dai tempi di Re Davide, tremila anni fa; chi lo rifiuta o lo limita, esclude anche questa designazione. È un fatto che nel mondo attuale il primo gruppo sia costituito soprattutto da politici di destra (Trump è stato decisivo su questo problema) e il secondo da politici e governi di sinistra. Il caso dell’Australia, per esempio è chiarissimo: il governo che ha riconosciuto Gerusalemme era conservatore; alle elezioni di quest’estate hanno vinto i progressisti e sono loro ad aver deciso, come un segnale politico di discontinuità in politica internazionale, di togliere tale riconoscimento. Lo stesso vorrebbero fare molti democratici americani. E’ una vicende che dà da pensare anche rispetto alle vicende italiane.

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