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    Il governo delle ministre

    Il nuovo governo dello Stato d’Israele che ha ricevuto nelle scorse ore la risicata fiducia della Knesset vede la presenza di nove ministre. Ricoprono tutte incarichi di prestigio, riflettono le tante anime della coalizione e, ancor più, degli israeliani. I trascorsi di tre di loro meritano di essere ricordati perché contengono alcuni indizi utili a comprendere come calcheranno la scena politica.

     

    Al Ministero degli interni è stata nominata Ayelet Shaked, sionista del partito Yamina, “A destra”, braccio destro di Bennet, la più autorevole e influente delle ministre, già titolare del dicastero della giustizia. Quarantacinquenne è nata e cresciuta a Bavli, uno dei quartieri laici e progressisti a Nord di Tel Aviv. Appartiene a una famiglia che proviene dall’Iraq. Ha svolto il servizio militare nella brigata Golani, il reparto più rischioso e blasonato dell’esercito israeliano, ne è stata istruttore, per poi laurearsi in ingegneria informatica. Prima di schierarsi con Bennet nel 2010 è stata consigliere di Netanyahu. A distinguerla sono posizioni d’attacco: contro i clandestini africani “minaccia per l’economia”, contro la radio dell’esercito “che fa propaganda di sinistra”, contro il “machismo” per i diritti delle donne e contro i terroristi “da braccare ovunque”.  Ricorda a chi la intervista che aveva otto anni quando assistette ad un duello elettorale tra Shimon Peres e Yitzak Shamir: “ho scelto in quel momento da che parte stare, perché stare a destra significa amare il mio paese”.

     

    PninaTamano-Shata, parlamentare del partito Kachol lavan “Bianco-azzurro”, ha ottenuto la riconferma come ministro all’immigrazione, nel precedente governo era stata la prima donna di origini etiopi a ricoprire un incarico ministeriale. Oggi quarantenne, Pnina Tamano-Shata aveva tre anni quando, con i cinque fratelli e il padre, fece parte del gruppo di quasi 7.000 ebrei etiopi che raggiunsero Israele tra novembre 1984 e gennaio 1985, in una drammatica evacuazione. La madre li seguì molti anni dopo. “Per me, questo è un punto di riferimento e la chiusura di un cerchio”, aveva dichiarato Tamano-Shata al quotidiano Maariv. “Da quella bambina di tre anni che è immigrata in Israele senza una madre in un viaggio attraverso il deserto – aveva spiegato – alle lotte che ho condotto e sto ancora conducendo per la comunità l’integrazione, l’accettazione dell’altro, e contro la discriminazione e il razzismo”.  La comunità ebraica etiope israeliana comprende 140 mila persone, è tra le più povere del Paese e soffre di alti tassi di disoccupazione tuttavia, molti israeliani etiopi di seconda generazione hanno avuto successo raggiungendo importanti posizioni in campo militare, giudiziario e politico. 

     

    Merav Michaeli, del partito Avodà “Laburista”, siede nella Knesset dal 2013, ha sempre rappresentato l’ala più a sinistra del partito. Prima di entrare in politica ha lavorato soprattutto come attivista per i diritti delle donne. È nota per usare sempre le forme femminili dell’ebraico, anche quelle più rare che, nel linguaggio comune, stanno progressivamente sparendo. È opinionista del quotidiano Haaretz, compare sempre senza trucco e veste esclusivamente di nero. Ha una relazione, mai formalizzata, col conduttore televisivo Lior Schleien, che chiama il suo non-marito. La sua ambizione era nota da tempo, all’intero e all’esterno del partito: nel 2014 Netanyahu apparve nel programma di Schleien avvertendolo scherzosamente che prima o poi sua moglie sarebbe potuta diventare primo ministro. La sua notorietà è aumentata da quando si oppose alla decisione del Partito Laburista di aderire a un governo di coalizione con Netanyahu e Gantz. Fu l’unica dei tre deputati del suo partito a rimanere all’opposizione: gli altri due non solo decisero di sostenere la maggioranza, ma entrarono nel governo. “Credo ancora nel partito laburista”, disse all’epoca al giornale online Times of Israel, smentendo di volersi dimettere, “e spero che presto avremo un’opportunità per ricostruirlo e riabilitarlo”.

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