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    Israele: È tempo di bilanci per guardare al futuro

    Lunedì sera, al tramonto, si conclude l’anno ebraico 5781 e si apre il 5782. La tradizione ebraica, non troppo diversamente da quella di altri popoli, chiede per l’occasione che sparisca l’anno vecchio con tutte le sue maledizioni e arrivi quello nuovo portando benedizioni. Naturalmente tutti speriamo che l’augurio si realizzi. Vale però anche la pena di vedere com’è andato quest’anno che si chiude e che cosa ci si può aspettare da quello nuovo.

     

    Per Israele, come per il mondo, i dodici mesi scorsi sono stati piuttosto complicati. La ragione più chiara di questa difficoltà è stata la pandemia: nell’anno precedente Israele l’aveva affrontata con molta energia, attirandosi le lodi di tutti gli specialisti, ma poi era arrivata una seconda ondata molto grave. Anche per quanto riguarda le vaccinazioni Israele si era mosso all’avanguardia fra i popoli, all’inizio del 5781, ottenendo in anticipo rispetto agli altri paesi le dosi di vaccino e diffondendole largamente. Ma poi è arrivata una nuova ondata, che in questo momento imperversa largamente. Israele si è di nuovo messo all’avanguardia, imponendo per primo la terza dose di vaccino. Ma l’epidemia è ben lungi dall’essere finita. Si può valutare il risultato della lotta contro il Covid come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: Israele ha fatto moltissimo, forse più di ogni altro paese, per difendersi dal contagio, ma questo moltissimo oggi non pare ancora sufficiente. Bisogna fare di più e avere pazienza. Non resta dunque che augurarci che con l’aumento della quota vaccinale e magari con le medicine su cui ospedali e università israeliane stanno alacremente lavorando, il morbo sia sconfitto e non se debba più parlare fra un anno.

     

    Se dal piano sanitario passiamo a quello politico, ci troviamo di fronte di nuovo a una valutazione difficile. Sul piano interno un anno fa è esplosa la crisi del governo Netanyahu-Gantz, che non era mai veramente partito sul piede giusto. Ci sono state nuove elezioni, in cui la maggioranza è andata chiaramente alla destra, ma per via del rifiuto della maggior parte dei partiti, anche alcuni di destra, di appoggiare ancora Netanyahu, si è costituito un governo “di cambiamento”, con un primo ministro di destra ma una maggioranza molto sbilanciata a sinistra, che comprende anche un partito arabo islamista. Per di più questo governo ha una maggioranza davvero molto esile e dunque dipende dagli umori delle forze politiche più piccole e anche dei singoli deputati. Il suo patto di fondazione contiene la clausola di non far nulla che non sia stato concordato e dunque la sua azione è molto zoppicante; le iniziative più significative sono state comunque su temi di sinistra, non molto gradite all’elettorato, come la scelta di aiutare economicamente l’autorità palestinese e perfino Gaza, o di non protestare contro la politica mediorientale poco favorevole a Israele dell’amministrazione Biden. Il passaggio da Trump a Biden, avvenuto anch’esso durante l’anno che si chiude, era stato accolto con entusiasmo da molti in Europa (ma non certo in Israele). La fuga disordinata dall’Afghanistan, forse l’evento più traumatico della politica internazionale nel 5781, ha mostrato che Biden non è certo il presidente ideale che questi “molti” si aspettavano.

     

    Il problema principale per Israele ancora durante l’anno prossimo è come gestire i rapporti con una presidenza che ha una strategia sfavorevole allo stato ebraico e inoltre non è affatto competente e lucida come si pretendeva. In politica interna non è affatto certo che il governo Bennett resti in piedi: basterebbe poco per farlo cadere, un incidente militare che richiedesse un intervento non gradito al partito arabo o all’estrema sinistra, un eccesso di attivismo da parte di questi ultimi che spaventasse qualcuno a destra, soprattutto nel partito di Saar. Molto dipende da Gantz, che non nasconde le sue ambizioni da primo ministro e ha dei vecchi rancori contro Bennett e Lapid (ma naturalmente anche contro Netanyahu): il Likud lo corteggia e se decidesse di rovesciare le alleanze potrebbe diventare primo ministro di un governo di destra-centro.

     

    Soprattutto sul piano regionale la situazione è molto delicata. All’Iran mancano due mesi per essere pronto alla bomba atomica e nessuno, né in Europa né negli Usa, fa niente di serio per impedirlo. Israele forse potrebbe tentare un’azione solitaria, con l’appoggio degli stati del Golfo, ma per le ragioni appena dette questo metterebbe certamente in crisi il governo e sarebbe sgradito agli Usa, che potrebbero far uscire le informazioni più segrete, com’era abitudine di Obama, avvertendo l’Iran in un modo o nell’altro. D’altro canto l’Iran ha il governo più estremista della sua storia. A parte il presidente Raisi, il cui soprannome di “macellaio”, conquistato nei lunghi anni alla guida della magistratura dice già abbastanza, vi sono in posti chiave (gli interni, la giustizia) due fra coloro che la giustizia argentina ha individuato come responsabili dell’orribile attentato all’organizzazione ebraica di Buenos Aires (AMIA) che provocò 81 vittime. Bisogna aggiungere fra gli elementi di pericolo la terribile crisi del Libano, che può indurre Hezbollah a provocare una guerra contro Israele per nascondere la sua responsabilità, la continuazione delle guerre civili in Yemen e soprattutto in Siria, da dove possono partire altri attacchi, l’ambiguità russa e l’onda lunga dell’Afghanistan. Fra i palestinesi, il grande punto interrogativo è la tenuta del dittatore Mohamed Abbas, che ha 85 anni, una pessima salute ed è pochissimo amato dalla popolazione. Hamas cerca di soppiantarlo per poter condurre la lotta armata contro Israele anche in Giudea e Samaria e usare le sue risorse. E’ del tutto ovvio che questa concorrenza possa portare all’intensificazione del terrorismo e a un grosso conflitto a Gaza. Dalla parte di Israele nell’anno scorso si è consolidato e approfondito, se non esteso, l’arco di alleanze con i paesi sunniti (Emirati, Bahrein, Sudan, Marocco). E’ questa oggi la principale risorsa politica di Israele nella regione, ed una delle scommesse è quella di estenderne i confini, per esempio all’Oman e all’Arabia, ma anche di migliorare i rapporti con Egitto e Giordania.

     

    Ci sono altri temi che non possono essere toccati qui: l’economia, che è forte e dovrebbe migliorare; la giustizia, che è una ferita aperta, l’equilibrio delle diverse anime di Israele (laici e religiosi, in particolare charedim; askenaziti e mizrachim, la difficile situazione dell’ordine pubblico nelle zone arabe e ancora il rapporto fra israeliani ed ebrei della diaspora, soprattutto gli americani che si sono notevolmente allontanati dal sostegno di una volta). Sono grandi temi e problemi permanenti della società israeliana. L’importante è che le difficoltà non si incancreniscano, che prevalga un senso di unità e di responsabilità che sul piano politico è stato molto messo in crisi negli ultimi anni e che ferisce ormai anche il tessuto sociale. L’augurio principale che possiamo fare a Israele non è di risolvere tutti i problemi, che sono troppi, ma di continuare a gestirli responsabilmente e con intelligenza, proseguendo pienamente la sua straordinaria storia di successo. E a noi stessi possiamo augurare di continuare ad appoggiarlo e a sostenerlo. Ma naturalmente a tutti, a tutto il popolo ebraico e in particolare ai lettori, l’augurio è quello tradizionale di un anno buono e dolce.

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