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    La questione giudiziaria, terreno di scontro della politica israeliana

    Le nuove politiche del governo israeliano

    Il nuovo governo israeliano non ha indugiato a decidere nuovi provvedimenti in discontinuità col governo precedente. Ha per esempio sanzionato sul piano economico l’iniziativa dell’Autorità Palestinese di far approvare all’Assemblea Generale dell’Onu il ricorso alla corte di giustizia dell’Aja sulla legittimità della “occupazione israeliana” dei “territori palestinesi” di Giudea e Samaria; ha stabilito di affidare all’autorità politica le materie della vita civile in Giudea e Samaria che finora erano di competenza di un’autorità militare; ha stabilito la revisione del programma di maturità riportando nei punteggi le materie umanistiche; ha annunciato la fine o un radicale ridimensionamento dell’intervento pubblico nella comunicazione radiotelevisiva; ha deciso la revisione di tasse e tariffe per combattere il carovita, incluse le tasse aggiuntive sulle stoviglie monouso di plastica, molto usate dal pubblico charedì ma detestate dagli ecologisti. Tutte queste decisioni e quelle che devono ancora seguire corrispondono al programma elettorale con cui la coalizione ha ottenuto una consistente maggioranza di seggi al parlamento, ma sono destinate a suscitare polemiche interne ed esterne, soprattutto da parte di chi ha interesse a sostenere che la maggioranza della destra e il suo governo sono l’anticamera della fine della democrazia in Israele, del caos e magari della guerra civile. 

     

    La questione giudiziaria

    Ma il punto su cui certamente si concentreranno le polemiche saranno le scelte in materia giudiziaria, annunciate nei giorni scorsi dal ministro della giustizia Yarin Levin. Per capire di che cosa si tratti, bisogna brevemente spiegare il funzionamento del sistema giudiziario in Israele. Vi sono due principali differenze rispetto all’Italia. Il primo, minore ma significativo, è la presenza al vertice di tutte le principali istituzioni dello stato (i ministeri, il gabinetto, perfino il parlamento unicamerale, la Knesset) di “consiglieri giuridici”, che non hanno solo il potere di dare pareri ai responsabili, ma possono renderli pubblici e dichiarare che certe scelte proposte sono o non sono legali, di fatto proibendole. Al vertice di questo sistema vi è il procuratore generale, che non ha vincoli di subordinazione rispetto al ministro della Giustizia, assomma in sé il potere di stabilire preventivamente la legalità delle decisioni ministeriali, di autorizzare o meno le indagini di polizia sui funzionari pubblici o magari di sollecitarle e di dirigerle, di fungere da istanza etica all’interno del governo decidendo per esempio quali finanziamenti dei politici siano ammissibili, di essere il capo dei procuratori che sostengono l’accusa nei tribunali e di reggere anche l’ufficio dell’avvocato di stato di fronte alla Corte Suprema, con autonomia tale che gli consente di decidere se difendere o meno i provvedimenti del governo. Tutte scelte inappellabili, contro cui la politica è disarmata.  Nessuna figura con questi poteri esiste in Italia, negli Stati Uniti, nei paesi democratici europei. La proposta di cui da tempo si discute è dividere questi poteri fra un normale consigliere giuridico del governo e un procuratore generale.

     

    La Corte Suprema

    Ancora più anomala è la situazione della Corte Suprema. In termini italiani, essa svolge assieme la funzione di tribunale amministrativo di prima istanza (il nostro TAR), cui tutti i cittadini possono rivolgersi, ma anche di Consiglio di Stato, il supremo organo della giustizia amministrativa, perché contro le sue decisioni non è ammesso appello; di Corte di Cassazione cui arrivano tutti i ricorsi contro le sentenze civili e penali. A partire da una trentina d’anni la Corte si è anche attribuita i poteri di Corte Costituzionale, cioè la possibilità di abolire delle leggi votate dal parlamento, se le trova “illogiche” o “incostituzionali”. Ma Israele non ha una costituzione chiusa, solo delle “leggi fondamentali” che la Knesset introduce ed emenda secondo le necessità, creando una sorta di costituzione “in progress”. Tuttavia la Corte Suprema si riserva il diritto di decidere se anche queste leggi fondamentali che costruiscono progressivamente una costituzione siano costituzionali o meno. Anche di questi poteri non c’è traccia in Italia, in Usa, nei paesi europei. Particolarmente importante è la possibilità per ogni persona, cittadino o meno, di avanzare petizioni immediate alla Corte, senza passare per l’ordinanza di un giudice, perché questi ricorsi vi sono sempre sulle decisioni importanti della Knesset e del governo, sicché su ogni materia la Corte ha la possibilità di esprimere immediatamente una decisione definitiva.

     

    La nomina dei giudici

    A questi poteri va aggiunto il fatto che i giudici, in particolare i 15 della Corte Suprema, sono nominati a vita (o meglio fino alla pensione) da una commissione in cui la corte stessa ha tre membri su nove, che diventano quasi sempre maggioranza con altri due membri nominati dall’avvocatura che regolarmente le si accoda, mentre il governo sceglie due commissari e la Knesset altri due, di cui uno dell’opposizione, sicché i rappresentanti degli elettori sono in linea di principio minoranza. Un meccanismo sostanzialmente di cooptazione, del tutto diverso da quelli in uso nel resto del mondo dove le nomine sono per lo più nelle mani dei Presidenti della Repubblica e dei Parlamenti (cioè degli eletti del popolo). In Israele dunque la Corte Suprema, in sostanza se non formalmente, ha anche i poteri del nostro Consiglio Superiore.

     

    La riforma

    I punti principali annunciati da Levin sono tre. Il primo è il cambiamento della commissione di nomina dei giudici. I due membri ora assegnati all’avvocatura andranno uno al governo e uno alla Knesset riequilibrando il meccanismo di scelta. Il secondo punto è la sconfessione del generico criterio di “ragionevolezza” con cui la Corte ha abrogato leggi che non concordavano con le sue scelte ideologiche, senza bisogno di mostrare che fossero in contraddizione con altre leggi fondamentali. Il terzo è la possibilità per la Knesset di superare l’abrogazione di una legge, quando questa abrogazione non fosse stata deliberata all’unanimità della Corte, ristabilendo così il primato  della volontà popolare espressa nelle elezioni, salvo casi eccezionali di abusi tali che tutta la Corte li  volesse condannare. Il meccanismo è in qualche modo analogo a quello che consente al Congresso (e anche al Parlamento italiano) di superare il veto di un Presidente. Non si può dire certo che queste riforme aboliscano lo stato di diritto in Israele, certamente riequilibrano una situazione in cui il potere “di ultima istanza” non era quello stabilito dalle elezioni, ma dalla cooptazione dei giudici. E certo non si può, in buona fede, accostare queste scelte politiche al processo in corso contro Netanyahu, che è ben lontano dal ricorso alla Corte Suprema. Ma altrettanto sicuramente la discussione sarà molto aspra.

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