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    La strage di Ariel: è possibile fermare i terroristi?

    La scena

    È una scena che non è difficile immaginare: una mattina d’autunno, chiara e un po’ ventosa sulle colline della Samaria. Terra rossa sassosa, ulivi, un’autostrada, qualche capannone industriale. Sono circa le 8. All’ingresso dell’area industriale di Ariel, quattro o cinque chilometri ad est della città universitaria al centro della Samaria, entrano parecchi lavoratori arabi. Vi si fabbricano materiali edilizi, tubi di plastica e di metallo, contenitori tecnologici. Per una disposizione di leggemolto chiara, i lavoratori arabi sono trattati come quelli israeliani: stessi stipendi, stesse condizioni contrattuali, stessa sicurezza sociale. Il che significa una situazione molte volte migliore di quella dei lavoratori impiegati presso le poche imprese palestinesi esistenti nei dintorni. I rapporti umani fra le maestranze e le imprese sono quindi in genere buoni, lavoratori arabi e israeliani lavorano fianco a fianco senza tensioni. L’ho visto io stesso visitando gli impianti qualche tempo fa.

     

    La strage

    All’ingresso della zona industriale c’è un portinaio, più che una guardia: la zona non è considerata un obiettivo sensibile. Fra le persone che passano in fretta c’è un giovane conosciuto, abbastanza alto, con la faccia tonda, i capelli neri di tutti in quei dintorni, un paio di occhiali scuri. Ha diciotto anni, si chiama Mohammad Souf, viene dal villaggio di Khares, che dista appena un paio di chilometri verso nord dalla zona industriale. Si scoprirà che è figlio di un condannato per terrorismo, che fa parte di Fatah, il partito di Mohammed Abbas; ma questo non era noto, o non ci si badava. Il giovane lavora lì, ha un permesso israeliano, probabilmente varca quella soglia ogni giorno;  si avvicina al portinaio senza problemi, magari fa cenno di volergli chiedere qualcosa. Tira invece fuori un lungo coltello e glielo infila nel ventre e nel collo. Il guardiano morirà in mattinata per le ferite. Mohammad Souf scappa giù dalla collina, arriva a una pompa di benzina dove c’è parecchia gente. Ha ancora il coltello nascosto. Lo tira fuori e ne accoltella alcuni. Uno muore, altri sono feriti gravemente. Il terrorista si impadronisce di una macchina, fugge sull’autostrada 5 (trans-Samaria) che corre lì vicino. Non gli basta quel che ha fatto, investe apposta una macchina, uccidendo un’altra persona. Ne accoltella un’altra ancora. Scappa a piedi, non essendo riuscito a rubare un’altra macchina. Finalmente incontra un soldato fuori servizio, che cerca di accoltellare. Il soldato reagisce, gli spara e finalmente lo abbatte. Intervengono i servizi di soccorso che cercano di salvare i feriti. Il bilancio è pesantissimo: tre israeliani morti, due feriti molto gravi, altri più leggeri. Le tre vittime sono poi state identificate, i loro nomi sono Moshe Ashkenazi, Michael Ladygin e Tamir Avihai.

     

    Le domande

    Ci si chiede come ha fatto Souf a compiere una strage del genere. C’era forse un complice? Le autorità indagano. Si poteva evitare l’attentato? Per questo come per i tanti, tantissimi altri attentati di questi giorni, la risposta è forse sì, militarizzando il territorio, tenendo sempre le armi pronte, evitando ogni contatto con gli arabi, rimanendo sempre barricati. Ma certamente è difficile vivere in questa maniera. La ragione è che quelli come Souf non cercano obiettivi militari, non vogliono conquistare o difendere un territorio, non vogliono colpire i soldati con il progetto di sconfiggere Israele. Vogliono uccidere gli israeliani (o meglio solo gli israeliani ebrei, e in definitiva tutti gli ebrei anche senza la cittadinanza israeliana). Chiunque sembri loro  far parte del popolo ebraico è un obiettivo: donne, bambini, vecchi, giovani, israeliani, europei. Il terrorismo è questo: colpire alla cieca con una logica non militare, ma genocida. Questo va spiegato a quelli che parlano di “resistenza” o “guerra di popolo”: non si tratta affatto di ciò, ma di pura e semplice volontà genocida, perfettamente analoga a quella nazista.

     

    Come fermarli dunque?

    Chi può fermare questi attacchi, e in effetti ne blocca parecchi, ma purtroppo non tutti, sono i servizi di informazione e sicurezza israeliani. Anche negli ultimi mesi hanno fatto tanti arresti, tanti sequesti di armi, tante coraggiose battaglie per espugnare i covi dei terroristi. Ma il serbatoio è ampio. L’autorità palestinese e tutti i movimenti palestinisti, Fatah come Hamas come la Jihad islamica, compresi quelli che sul teatro internazionale fanno i pacifisti, incoraggiano ed esaltano questi crimini. A Gaza i militanti sono scesi nelle strade con vassoi di dolci da offrire ai passanti; magari a Hebron faranno i fuochi d’artificio per festeggiare gli omicidi, come è successo una decina di giorni fa. E l’Autorità Palestinese pagherà alla famiglia dell’assassino una grossa cifra e una pensione per tutti. Magari nel suo paese gli dedicheranno una piazza. I giornali e le televisioni lo esalteranno, nelle scuole, comprese quelle dell’UNRWA pagate dalle Nazioni Unite e dunque anche dalle nostre tasse, diventeranno oggetto di studio e di imitazione.

     

    Fare pressione

    Fino a quando tutto ciò continuerà, ci saranno altri Souf pronti a scannare ebrei. Per fermarli bisognerebbe che si creasse un clima sociale che rifiuta il terrorismo, ma tutti i movimenti palestinisti rifiutano di condannare la “lotta armata”, cioè gli omicidi di israeliani. Bisognerebbe allora obbligare queste organizzazioni, almeno togliendo loro i fondi; ma i “progressisti” di mezzo mondo, dagli Usa all’Europa, compreso l’Italia, li appoggiano, li finanziano, li giustificano. Come dimenticare Craxi che in Parlamento giustificava la “lotta armata palestinese” al Risorgimento? Come dimenticare più di recente, le parole di appoggio alla “lotta palestinese” di diversi candidati del Pd alle ultime elezioni?  Per fermare il terrorismo bisogna fare una battaglia morale e politica anche in Occidente. E appoggiare qui come in Israele quel che fa Israele per difendersi.

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