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    Le quattro crisi che assediano Israele

    La difficoltà di Israele

    E’ un momento estremamente difficile per Israele, dove si sovrappongono, si incrociano e si aggravano a vicenda quattro diverse crisi. Per Bibi Netanyahu, che ha il compito di guidare il paese in questo tempo, si tratta dell’impegno più difficile della sua lunga carriera politica. Al di là delle posizioni politiche, chi ama Israele non può non augurarsi che ce la faccia.

     

    La prima crisi: l’Iran

    I giornali e anche i cuori sono pieni dell’emergenza terrorismo, ma la prima crisi, la più vasta e la più pericolosa è quella determinata dall’armamento iraniano. La Commissione Atomica dell’Onu ha reso pubblico qualche giorno fa il fatto che l’Iran è riuscito ad arricchire l’uranio all’84%. Il grado di arricchimento dell’uranio necessario per innescare la reazione a catena che fa funzionare una bomba atomica è del 90%. Per la Cia all’Iran basterebbero un paio di settimane per arrivarci. Si è anche saputo di recente che in cambio del sostegno nell’invasione dell’Ucraina, la Russia ha accettato di fornire all’Iran 24 dei suoi aerei più avanzati, i SU-35. Probabilmente i prossimi mesi sono l’ultimo momento per impedire agli ayatollah di diventare una potenza nucleare, rovesciando la bilancia del potere in Medio Oriente. Per farlo Israele ha bisogno di tutte le sue forze e dell’appoggio degli Usa, che sono titubanti dato che l’amministrazione Biden è tradizionalmente filo-iraniana ed è impegnata sul fronte ucraino e potenzialmente su quello cinese. Netanyahu deve fare tutto il possibile per ottenere questo appoggio, anche in vista della ricaduta della crisi, che sarebbe grave anche se il bombardamento degli impianti nucleari iraniani andasse bene.

     

    La seconda crisi: il terrorismo palestinese

    Certamente ispirato e appoggiato dall’Iran, il terrorismo non conosce soste e cresce da alcuni anni. Gli attacchi con le pietre sono passati dai 3805 del 2019 ai 7589 dell’anno scorso; quelli con molotov da 839 a 1268, con armi da fuoco da 19 a 285 (dati dell’IDF). L’anno nuovo sta battendo tutti i record e purtroppo le vittime innocenti da lamentare sono parecchie. Vi sono basi terroriste ormai ben stabilite a Jenin a Shehem (Nablus) con centinaia di uomini. Le consultazioni tenute nei giorni scorsi ad Aqaba per “de-scalare” la situazione non hanno cambiato la situazione. Gli Usa pretendono che Israele smetta di aiutare gli insediamenti in Giudea e Samaria e di far entrare le forze dell’ordine nelle città arabe per arrestare i terroristi. Ma questo non è possibile di fronte all’intensificarsi del terrorismo e del resto vi sono forti segnali di sofferenza da parte della popolazione bersagliata dalla violenza terrorista, come si è visto nelle reazioni all’attentato di Huwara in cui sono stati uccisi i due fratelli Hillel e Yagel Yeniv. Molti politici di tutti i partiti hanno ammonito che non bisogna farsi giustizia da sé; ma ciò richiede un maggiore impegno antiterrorismo delle forze armate, non un loro freno. Il governo ha approvato una legge sulla pena di morte per i terroristi, che però ha incontrato il parere negativo del Procuratore generale Gali Baharav-Miara, nominata dal governo Lapid e contraria in genere alle politiche di Netanyahu.

     

    La terza crisi: la politica interna di Israele e la riforma della giustizia

    Il governo attuale è il risultato di elezioni tenute appena quattro mesi fa, dopo che il precedente governo uscito dall’assortimento molto disomogeneo dei nemici di Netanyahu era collassato da solo. Quello costituito da Netanyahu è un governo politico con un mandato elettorale molto preciso: riforma della giustizia, sostegno agli insediamenti e ai settori haredì, cambiamenti nella gestione dello stato, provvedimenti sociali. L’opposizione però non ha accettato il risultato delle elezioni e cerca di contrapporre ai provvedimenti della maggioranza una mobilitazione di piazza condotta in toni estremi e con modalità violente. Si è cercato di impedire ai deputati di votare, si è accusata in piena Knesset la maggioranza attuale di essere “come Hitler”. C’è un braccio di ferro in corso che al di là del giudizio sui singoli provvedimenti non rientra nella normale dialettica democratica e indebolisce fortemente il paese. Se la protesta prevalesse, si aprirebbe una crisi politica drammatica, perché certamente non sarebbe possibile riproporre la vecchia coalizione suicidatasi l’anno scorso,  né tentare un’alleanza con i partiti arabi che in sostanza sostengono il terrorismo.

     

    La quarta crisi: l’economia e i prezzi

    Israele vive un momento difficile anche per l’inflazione e il valore dello shekel, che hanno dato segnali preoccupanti e che rendono difficile la vita dei ceti meno abbienti. In realtà l’economia israeliana è prospera, una delle meno colpite in assoluto dalla crisi che viene dal Covid e dalla guerra; ma vi è una forte speculazione politica su questo piano, perché alcuni settori imprenditoriali allineati con l’opposizione hanno scelto di proclamare il proprio disimpegno dal paese in seguito al conflitto politico interno. Naturalmente non c’è rapporto fra carovita e riforma della giustizia. Ma anche questo è un punto di crisi. 

     

    L’intreccio delle crisi

    E’ chiaro che il terrorismo è funzionale all’Iran e che per ottenere l’appoggio degli Usa Israele deve limitare la propria autodifesa, scontentando parte dei partiti della maggioranza e i loro sostenitori, ma soprattutto le comunità più esposte agli assalti palestinesi. La crisi della giustizia si riflette sull’attività del governo sia per l’atteggiamento della Corte Suprema e del Procuratore Generale che in genere frenano lo sviluppo degli insediamenti in Giudea e Samaria e la possibilità di autodifesa delle forze dell’ordine e della comunità. Chi guida la protesta di piazza, intensa e molto diffusa cerca di paralizzare l’attività del governo e della Knesset, e quando ci riesce si giova anche la carta della minaccia economica, e dell’appello agli Stati Uniti “in difesa della democrazia”, che è un evidente pretesto, come dimostra la stessa presenza indisturbata delle manifestazioni.

     

    La speranza

    Diverse voci, fra cui quella del presidente Herzog, si sono alzate per invocare unità nazionale e responsabilità da parte di tutti. Ma la strada non può essere quella della rinuncia ad attuare il programma di governo, perché questo porterebbe a una pericolosa crisi dell’esecutivo e alla mancanza di un progetto politico, che oggi è essenziale. Bisogna invece sperare che l’esperienza e la saggezza politica di Bibi Netanyahu sappiano sciogliere il nodo delle crisi e far crescere la sicurezza e la prosperità di Israele.

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