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    Nuovi omicidi terroristi contro i militari israeliani. Cause e conseguenze

    Altri due militari caduti

     

    Ai circa 28.300 militari israeliani caduti dall’Indipendenza nelle guerre dei paesi arabi e nel terrorismo contro Israele, se ne sono aggiunti nei giorni scorsi altri due. Sono il sergente della polizia di frontiera Noa Lazar, uccisa da un terrorista a colpi d’arma da fuoco a un check point all’ingresso di Gerusalemme, e Ido Baruch, primo sergente della brigata Givati assassinato a fucilate mentre faceva la guardia vicino al villaggio di Shavei Shomron. La prima aveva diciott’anni, il secondo ventuno. Il dolore è grande in Israele e nel mondo ebraico della diaspora. Identificarsi in questo lutto è ovvio: in un piccolo popolo come quello ebraico, in un paese piccolo come Israele, dove il servizio militare è obbligatorio, ogni famiglia ha avuto dei morti, dei feriti, qualche figlio o cugino che ha rischiato gravemente di diventare egli stesso vittima del terrorismo. Vi sono pochi momenti più commoventi delle cerimonie di Iom hazicharon, il giorno del ricordo alla vigilia della festa dell’indipendenza, quando questi caduti sono commemorati, onorati e rimpianti e tutto il paese si ferma nel dolore.

     

    Le regole di ingaggio

     

    Ma al di là del lutto per questi due ragazzi, stroncati a tradimento mentre assicuravano la sicurezza di tutti, si aprono dei problemi militari e politici. L’ondata terrorista in corso si sta gonfiando e sta progressivamente passando dall’uno di sassi, bombe molotov, coltelli alle armi da fuoco. Meno di un mese fa era stato ucciso in circostanze analoghe il maggiore Bar Falah, vice comandante dell’unità di élite Nahal, cui era stato rifiutato dal comando territoriale il permesso di sparare preventivamente ai terroristi individuati. Noa Lazar è stata uccisa mentre era allo scoperto nel posto di blocco, per verificare i documenti di quanti volevano entrare a Gerusalemme. I suoi compagni, probabilmente obbedendo a ordini predisposti, non hanno replicato al fuoco, lasciando scappare il terrorista. Molti si chiedono se le regole di ingaggio dei servizi di guardia in Giudea e Samaria non siano state troppo allentate di recente. Questo non è un problema tecnico, ma politico, perché da tempo si registra una forte pressione americana, anche pubblica, per cambiare le procedure delle forze armate israeliane in senso più restrittivo per l’autodifesa dei militari. Tali pressioni vengono anche dalle forze politiche arabe in Israele, che regolarmente, quando muore qualche terrorista negli scontri armati che derivano dalla loto resistenza all’arresto, accusano le forze armate di Israele di essere responsabili di quelle morti e addirittura di “omicidio”. Purtroppo fanno loro eco anche esponenti dell’estrema sinistra di Meretz. Gli uni e gli altri dovranno per forza far parte della coalizione di un nuovo governo Lapid, se alle elezioni non prevarrà lo schieramento di Netanyahu.  Anche la stampa e la politica internazionale ha fatto la sua parte in questo sforzo di ridurre la capacità di autodifesa dei soldati, per esempio con la campagna relativa alla morte della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, colpita da un proiettile vagante mentre seguiva uno di questi scontri.

     

    Le posizioni palestiniste

     

    Un’altra questione importante che va valutata è la posizione delle forze palestiniste. Ufficialmente l’Autorità Palestinese non incoraggia il terrorismo, anzi nei casi più estremi spende talvolta qualche parola per condannarlo (solo in inglese, in arabo il discorso è diverso). Ma la politica pratica è ben altra. Chi ha assassinato Lazar e Baruch sapeva che sarebbe stato protetto in ogni modo dall’omertà degli arabi di tutta la Giudea e Samaria, che sarebbe stato onorato e festeggiato dai media, che se fosse stato catturato e condannato dalla giustizia israeliana avrebbe avuto uno stipendio dall’Autorità Palestinese, e se fosse stato ucciso in combattimento questo stipendio sarebbe stato pagato alla famiglia. Molto probabilmente fin da bambino e poi per tutta la sua carriera scolastica era stato sommerso dalla propaganda del terrorismo, che poi aveva ritrovato alla televisione palestinese, alla radio, nei raduni pubblici. Insomma l’Autorità Palestinese, per non parlare dello ”Hamastan” di Gaza, è una vera e propria macchina di produzione del terrorismo. Se non bastasse questo, spesso i terroristi sono ormai membri delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, formati e armati da istruttori americani e di vari paesi europei. E se sono dei “civili” appartengono comunque spesso ad Al Fatah (il cui presidente è lo stesso dell’Autorità Palestinese, Mohamed Abbas): regolarmente la sua “ala militare” (Brigate di Al Aqsa) rivendica la paternità degli atti di terrore, in concorrenza con Hamas, Jihad islamica ecc.  Un aspetto particolarmente scandaloso di questa partecipazione della società palestinese sono i festeggiamenti che si svolgono a ogni notizia di un crimine terrorista che ha ferito o ucciso degli israeliani: distribuzioni di dolci in strada, fuochi d’artificio, manifesti, celebrazioni televisive.

     

    Le conseguenze

     

    È chiaro che questa situazione non può andare avanti a lungo. E’ probabile che già le regole d’uso dei militari ai check point siano state cambiate e rese più severe. Ma questo non basta. Ci sarà una maggiore attività dei servizi di sicurezza e dell’esercito per individuare e arrestare i mandanti e possibili esecutori di nuovi attentati. E  si incomincia a parlare di una nuova operazione simile a quella che mise termine all’ondata terrorista del 2000-2002: si tratterebbe di distruggere radicalmente le infrastrutture terroriste, soprattutto a Shechem (Nablus) e Jenin, riconquistando provvisoriamente queste città. Data la complicità chiara dell’Autorità Palestinese in questi crimini, uno sviluppo obbligatorio sarebbe il rifiuto netto di ritornare al vecchio schema delle “trattative” per i “due stati”, come vorrebbe Biden (e l’Unione Europea) e come Lapid ha accettato di fare in linea di principio nel discorso all’Onu. Ma questa è una materia politica, che come molte altre (l’accordo col Libano, l’azione sull’Iran)  sarà decisa solo dalle prossime elezioni, cui ormai mancano solo poco più di due settimane.

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