Skip to main content

SPECIALE PESACH 5784

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati

    Storia di un proiettile e dello sfruttamento propagandistico della morte di una giornalista

    Molti reporter di guerra uccisi

    Secondo la federazione internazionale dei giornalisti (IFJ), fra il 1990 e il 2020 ben 2658 giornalisti sono stati uccisi mentre svolgevano il loro lavoro, la maggior parte in episodi di guerra. Nei soli primi quattro mesi dell’invasione russa dell’Ucraina, secondo l’Ansa i giornalisti morti in azione sono stati 32. Certamente accade che qualcuno dei contendenti cerchi di impedire che vengano diffuse notizie che possono danneggiarli, ma è chiaro che la maggior parte di queste morti non sono intenzionali, anzi la pettorina con la scritta “PRESS” costituisce spesso un lasciapassare, tanto da essere spesso indossata più o meno abusivamente da terroristi che cercano l’impunità o da “giornalisti militanti” che cercano di fare del loro mestiere un’arma contro il nemico. I giornalisti di guerra però per svolgere il loro compito devono andare sui campi di battaglia, nei quartieri delle città in cui si spara o dove arrivano missili e cannonate e talvolta ne restano vittime come la popolazione che si trovano vicino.  

     

     

    Il caso  Abu Akleh

    Dei giornalisti morti sul lavoro in genere si parla poco, c’è una sorta di pudore da parte della categoria. Ma vi sono delle eccezioni, spesso motivate politicamente. Una di queste è il caso di Shireen Abu Akleh: giornalista palestinese cristiana nata nel 1971 a Gerusalemme, dove risiedeva, corrispondente dell’emittente televisiva Al Jazeera, uccisa all’alba dell’11 maggio durante pesanti scontri fra le forze militari di Israele e i terroristi asserragliati in un quartiere di Jenin, che lei era venuta a seguire. Shireen Abu Akleh era una dei protagonisti del giornalismo militante anti-israeliano di Al Jazeera, la televisione del Qatar che è stata espulsa dall’Egitto e dall’Arabia Saudita per il carattere propagandistico e fazioso delle sue trasmissioni. In Israele la stampa è libera e nessuno ha mai impedito all’emittente o alla reporter di fare il suo lavoro, anche se c’erano state forti polemiche sul suo estremismo anti-israeliano. 

     

    Le circostanze della morte e gli sviluppi successivi

    Fra aprile e maggio vi è stata in Israele una notevole ondata di attentati, causata per lo più da terroristi provenienti da Jenin e Nablus. L’esercito israeliano era impegnato in un’operazione per eliminare le cellule terroriste e spesso doveva spingersi di notte nei vicoli di queste città per arrestare i sospetti; ne nascevano conflitti a fuoco molto intensi. In uno di questi è morta  Abu Akleh. L’esercito israeliano ha subito espresso rincrescimento e il governo ha offerto all’Autorità Palestinese un’inchiesta congiunta. Ma l’offerta è stata respinta, è partita la solita macchina propagandistica, con minacce di denunce alla Corte Penale Internazionale, mozioni all’Onu e coinvolgimento di politici e giornalisti di sinistra soprattutto negli Usa. Il funerale di  Abu Akleh a Gerusalemme è stato sequestrato da Hamas, i suoi militanti hanno tolto la bara ai famigliari per portarla in testa a un corteo di protesta che è stato disperso dalla polizia.

     

    Le inchieste

    Nel frattempo l’ufficio del Pubblico Ministero dell’Autorità Palestinese aveva ordinato un’autopsia, che è stata compiuta da Rayan Al-Ali, direttore del dipartimento di medicina alla al-Najah University di Nablus.  Il risultato è stato negativo, come ha spiegato l’accademico in una conferenza stampa. Non gli è stato possibile stabilire dall’esame del corpo e della pallottola chi avesse ucciso Abu Akleh, la sola cosa chiara è che il colpo era partito da lontano. Israele ha chiesto di poter esaminare la pallottola, ma questo gli è stato negato. Il proiettile è stato invece consegnato all’ambasciata americana, che aveva chiesto di poterla studiare per vedere se c’era la possibilità di un processo, dato che la giornalista aveva anche il passaporto americano. L’esame è stato fatto nei giorni scorsi, ma la pallottola era così danneggiata dall’impatto sull’elmetto che la giornalista indossava, da non lasciar determinare la sua provenienza: un risultato che ha suscitato ira e polemica da parte dell’Autorità Palestinese. Bisogna aggiungere che spesso i terroristi palestinesi usano armi israeliane rubate nei depositi o tratte dai rifornimenti alla polizia palestinese, per cui l’esame del proiettile è comunque poco significativo.

     

    Le conclusioni

    Molto probabilmente non si saprà mai chi ha sparato il colpo che ha ucciso Shireen Abu Akleh. La giornalista è morta durante un convulso scontro a fuoco nei vicoletti della kasbah di Jenin, in una situazione di poca luce e di grande confusione. È chiaro che l’esercito israeliano non ammazza i giornalisti e l’idea di un cecchino che in una situazione operativa del genere mirasse proprio a lei è semplicemente ridicola. Vi sono delle registrazioni di voci dei terroristi che dicono di aver ucciso un uomo dell’esercito israeliano; ma quel giorno non vi sono stati vittime fra i militari e il bersaglio potrebbe essere stato proprio Abu Akleh. Ma non si può escludere che fra i colpi sparati dai soldati uno per sfortuna sia finito proprio a colpire la giornalista. Una cosa è chiara, non è stato un omicidio, una morte voluta, ma una disgrazia come le parecchie che purtroppo colpiscono i reporter di guerra.

    CONDIVIDI SU: