Skip to main content

SPECIALE PESACH 5784

Scarica il Lunario 5784

Contatti

Lungotevere Raffaello Sanzio 14

00153 Roma

Tel. 0687450205

redazione@shalom.it

Le condizioni per l’utilizzo di testi, foto e illustrazioni coperti da copyright sono concordate con i detentori prima della pubblicazione. Qualora non fosse stato possibile, Shalom si dichiara disposta a riconoscerne il giusto compenso.
Abbonati

    Tensioni tra Israele e Usa – Gli israeliani hanno una pessima opinione delle politiche di Biden

    La maggior parte degli israeliani non è affatto contenta dell’Amministrazione Biden. Lo rivela un sondaggio appena uscito: “Solo il 10,9% degli israeliani, e in particolare il 9,9% degli ebrei israeliani, afferma che Israele sta meglio con la presidenza Biden, rispetto al 52,9% degli israeliani (e al 58,2% degli ebrei israeliani) che affermano che Israele stava meglio con l’amministrazione Trump. Poco più di un terzo (36,2%) degli israeliani afferma che non ci sono cambiamenti significativi dalla fine dell’amministrazione Trump.”). 

     

    È una notizia significativa, perché segnala una tensione fra Israele e il suo principale alleato non solo al livello del governo, ma dell’opinione pubblica. Ma non è una sorpresa: a differenza degli ebrei americani, sempre in maggioranza democratici, gli israeliani col doppio passaporto, che nella popolazione di Israele non sono pochi, l’anno scorso avevano votato assai più per Trump che per Biden.

     

    Al di là delle buone parole, le politiche della nuova amministrazione hanno confermato il giudizio negativo degli israeliani, soprattutto su due punti. Il primo e più importante è l’Iran. In dieci mesi l’amministrazione Biden non ha fatto nulla per fermare la corsa degli ayatollah verso l’armamento atomico, a parte qualche vuoto ammonimento. La diplomazia americana ha cercato in tutti i modi di rimettere in piedi il disastroso accordo JCPOA concluso da Obama sei anni fa e poi abbandonato da Trump. E se non sono ripresi i finanziamenti americani e non sono stati tolte la sanzioni, ciò dipende solo dal fatto che gli ayatollah ora hanno interesse a realizzare il loro armamento nucleare prima di riaprire le trattative. Questa politica di sostanziale accondiscendenza mette Israele in grave difficoltà, anche perché i promessi aiuti militari americani necessari per attaccare le istallazioni nucleari di Teheran (bombe anti-bunker, aerei cisterna per rifornire in volo i bombardieri) non sono mai arrivati. E, a proposito, non sono arrivati neppure i rifornimenti per il sistema Iron Dome, nonostante tutte le promesse bipartisan. La causa in apparenza è il dissenso di un solo senatore, contrario a tutti gli aiuti all’estero.

     

    Il secondo punto è il rapporto col mondo arabo. L’amministrazione Biden ha in sostanza rigettato la rivoluzione strategica di Trump, che privilegiava il rapporto con i paesi arabi come via alla pace, trovando inefficace la ripetizione dei vecchi inutili tentativi di portare l’Autorità Palestinese al tavolo della trattativa. Ha mostrato dunque poco interesse per lo sviluppo degli “accordi di Abramo”, che – bisogna ricordare – si erano realizzate grazie al sostanzioso intervento dell’America di Trump. E insiste invece sui soliti temi: blocco degli insediamenti, finanziamenti all’Autorità Palestinese e all’UNRWA. C’è un punto di scontro che sta diventando acuto, che è la riapertura del consolato americano a Gerusalemme, che in sostanza fungeva da ambasciata degli Usa presso l’Autorità Palestinese. Trump l’aveva chiusa, Biden vuole riaprirla, la maggior parte degli israeliani e perfino Bennett non vuole assolutamente farlo, perché non si tratta di fornire servici diplomatici agli arabi dell’Autorità Palestinese, ma in sostanza di tornare indietro rispetto al riconoscimento che Trump aveva garantito di Gerusalemme come capitale di Israele. Gli americani infatti si sono categoricamente rifiutati di riaprire il consolato a Ramallah, come sarebbe logico, e perfino ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme escluso dal territorio municipale.

     

    Sembra che il ministro degli esteri israeliano e uomo forte del governo Lapid avesse personalmente promesso agli americani che l’apertura del consolato a Gerusalemme si sarebbe potuta fare, ma solo dopo l’approvazione del bilancio, per evitare che cadesse il governo: il suo solo voto di maggioranza non sarebbe bastato perché certamente qualche deputato di destra si sarebbe rifiutato di votarlo di fronte a un atto simbolico così grave. Ora, “secondo fonti americane citate dal giornale palestinese Al Quds, la sede diplomatica sarà aperta ‘poco’ dopo l’approvazione del bilancio il prossimo mese, cioè già a novembre o all’inizio di dicembre. Sembra che l’amministrazione Biden ‘sia furiosa con le politiche israeliane’ sull’espansione degli insediamenti in Giudea e Samaria e preoccupata per le tensioni sulla sicurezza in Cisgiordania[…]. Secondo queste fonti, in una prima fase la Casa Bianca prevede di raggiungere un accordo con Israele sulla questione. Se questi sforzi dovessero fallire, il governo potrebbe fare il passo unilaterale di riaprire il consolato una volta che il bilancio sarà approvato.” (https://www.israelhayom.com/2021/10/20/report-palestinian-consulate-in-jerusalem-could-be-opened-in-weeks/) Ma Lapid non ha fatto i conti con l’opposizione di Bennett (che si è detto “sconvolto” dalla posizione americana) e anche di Saar e dunque c’è il rischio di uno scontro diplomatico molto duro. In nessuna capitale al mondo un paese straniero ha mai aperto un consolato per gli abitanti di un terzo paese. E certamente un paese può aprire una sede diplomatica senza il consenso del paese dove essa è collocata. Farlo sarebbe violare la sovranità del paese, trattarlo come una colonia.

     

    Non a caso nel sondaggio citato sopra, Lapid ottiene un giudizio estremamente negativo dal pubblico israeliano: “Il governo ha ricevuto un punteggio netto di 5,29 su 10 in politica estera: solo il 24% gli ha attribuito un punteggio soddisfacente. In confronto, l’anno scorso, il governo Netanyahu aveva ricevuto un punteggio di 6,05. Lapid ha ricevuto un punteggio di 4,88, con il 36% degli intervistati insoddisfatti del suo lavoro, rispetto al 24% che si è detto soddisfatto.”

    CONDIVIDI SU: