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    Una crisi politica più che militare provocata da Hamas per mettere alla prova la forza di Israele

    Oltre duecentocinquanta missili sparati su Israele dalle posizioni terroriste di Gaza, centotrenta obiettivi colpiti nelle operazioni di rappresaglia dall’aviazione militare israeliana, fra cui un paio di tunnel di attacco verso il territorio israeliano, molte strutture militari di Hamas, diversi terroristi fra cui un importante capo militare. Una trentina di feriti israeliani per i razzi che sono sfuggiti alla difesa di Iron Dome e hanno colpito alcune case. Per la prima volta i proiettili di Hamas sono stati diretti anche contro Gerusalemme, nonostante il suo carattere sacro anche all’Islam e la presenza di molti quartieri arabi.

     

    Questo è il bilancio di una notte di fuoco come non ne accadevano da alcuni anni. E gli scontri continuano, con altri razzi e il coinvolgimento di Gerusalemme e di alcune località della Giudea e Samaria nelle attività terroristiche. I comandi israeliani prevedono che i combattimenti dureranno alcuni giorni e non vi sono per ora prospettive di cessate il fuoco, ma neanche di un’operazione di terra. Né vi sono segnali per ora di un possibile intervento esterno, in particolare dalla frontiera libanese e siriana, dove Hezbollah ha truppe e armi missilistiche ben superiori a quelle di Hamas. E’ difficile dubitare di come finirà questo attacco: le armi di Hamas possono produrre vittime e danni, ma solo in maniera limitata: i tunnel sono stati quasi tutti scoperti e chiusi, i missili sono bloccati in gran parte da Iron Dome. Al contrario l’aviazione e l’artiglieria israeliana hanno la possibilità di colpire duramente i terroristi. Bisogna chiedersi perché Hamas ha scelto di interrompere il suo atteggiamento di non belligeranza. 

     

    Vediamo innanzitutto la dinamica dei fatti. Siamo alla fine dei un “mese sacro” del Ramadan segnato da molte aggressioni individuali contro gli ebrei, soprattutto religiosi, di Gerusalemme, quella che è stata chiamata “tiktock intifada” perché gli assalti sono stati ripresi dagli aggressori e pubblicati dal social più diffuso fra i giovani. È in discussione una causa di sfratto di alcuni appartamenti del vecchio quartiere ebraico di Shimon haZadik (ribattezzato Shieck Jarrah dalla Giordania, dopo averne fatto pulizia etnica nel 1948) occupati da decenni da alcuni inquili morosi. Le case erano state costruite centocinquant’anni fa da ebrei su terreno regolarmente acquistato, la loro proprietà era stato riconosciuta dagli occupanti durante la lunga causa per lo sfratto, che era del tutto ovvio legalmente, dato che non risultavano pagamenti da decenni. Ora la procedura legale è arrivata alla fine, manca solo una pronuncia tecnica della corte suprema, e le organizzazioni antisraeliane, inclusi i terroristi, hanno deciso di farne un caso di “occupezione” e “giudeizzazione” di Gerusalemme. Vi è stata infine la sospensione delle elezioni dell’Autorità Palestinese, con cui Hamas contava di arrivare facilmente al potere. 

     

    È stata Hamas a organizzare gli incidenti degli ultimi giorni al Monte del Tempio, che hanno provocato qualche centinaio di contusi e di arresti. Ed è stata Hamas, ieri pomeriggio, a emettere un ultimatum assurdo contro Israele: se le forze di polizia non avessero abbandonato il Monte del Tempio e il quartiere con le case in discussione, se la procedura di sfratto non fosse stata sospesa, Hamas avrebbe usato le armi. Israele naturalmente non ha neppure risposto, dalle basi terroristi sono partiti i primi missili contro Gerusalemme, poi altri razzi contro le città vicino a Gaza, soprattutto Ashkelon, con l’ovvia e prevedibilissima reazione israeliana.

     

    E’ chiaro che si tratta di una mossa studiata e decisa da Hamas. L’obiettivo principale è interno: mostrare alla popolazione di Gaza e dei territori dell’Autorità Palestinese chi conduce la “lotta” e chi non lo fa, magari con l’obiettivo di rovesciare con la forza Mohamed Abbas. Vi è anche uno sfondo internazionale ovvio: Hamas è controllata dall’Iran, che cerca di togliersi di dosso la resistenza israeliana al suo insediamento in Siria e il trasferimento lì e in Libano di armi avanzate. Inoltre è Israele il punto principale di resistenza alla riattivazione degli accordi nucleari del 2015, che Biden vuole molto ed è vitale per l’Iran. Impegnare Israele in operazioni militari significa bloccarne l’operatività politica e diplomatica. Conta anche la denuncia alla Corte Penale Internazionale per i “crimini di guerra” che Israele commetterebbe difendendosi, che verrebbe certamente rafforzata da una nuova operazione a Gaza.

     

    Sullo sfondo di tutto vi è il tentativo di chiudere il percorso aperto da Trump con gli accordi di Abramo, di riportare Israele all’isolamento dei tempi di Obama rompendo quello che invece era stato imposto negli ultimi anni all’Iran; il progetto di riportare i paesi arabi nel “fronte della resistenza”, di giustificare l’atteggiamento ostile della nuova amministrazione americana verso Israele, magari esibendo, come Hamas ha subito fatto, vittime civili che erano state usate dai terroristi come scudi umani, o addirittura provocate da loro missili ricaduti su Gaza. Il gioco insomma è politico, non militare. Hamas ha deciso di mettere alla prova la posizione internazionale di Israele e magari anche di approfittare dell’opaca crisi politica di Israele, con la prospettiva della costituzione di un governo così eterogeneo da non poter prendere decisioni politiche impegnative. Ciò che bisognerà guardare nei prossimi giorni non è dunque l’esito militare dello scontro, ma quello politico: quanto terranno in questa situazione gli “Accordi di Abramo”, che posizione prenderà l’America al di là della solidarietà formale, che riflessi avrà la crisi sulla formazione del governo israeliano.

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