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    Commento alla Torà. Parashà di Tetzavè: la disonestà negli affari è simile all’idolatria

    In questa parashà viene descritta
    l’investitura di Aharon come Kohen Gadòl (sommo
    sacerdote). Nella Torà è scritto: “Avvicina a te, in mezzo agli israeliti, tuo
    fratello Aharon e i suoi figli con lui, perché siano miei kohanìm […]. Farai per Aharon, tuo fratello, vestimenti sacri,
    segno di dignità e magnificenza. Parlerai a tutti gli artigiani più esperti,
    che io ho riempito di uno spirito di saggezza, ed essi faranno gli abiti di
    Aharon […]. Questi sono gli abiti che faranno: il pettorale e il dorsale, il
    manto, la tunica ricamata, il turbante e la cintura (Shemòt, 28:1-4).

                    R. Aharon Ben Zion Shurin (Lituania, 1913-2012, Brooklyn) in Kèshet Aharon fa notare che in questa
    lista vi sono solo sei capi di vestiario, mentre il Kohen Gadòl per esercitare le sue funzioni doveva avere anche avere
    un frontale d’oro e dei pantaloni. Egli spiega che il frontale d’oro non è
    nella lista perché non era un capo di vestiario; i pantaloni non sono nella
    lista perché non erano un segno di dignità e magnificenza.

                    Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) nel suo commento alla Torà
    scrive che lo scopo di questi vestimenti era di far sì che il Kohen Gadòl avesse dei vestimenti che conferissero
    onore e magnificenza e quando venne data la Torà questi erano i vestimenti dei
    Re; il frontale d’oro era al posto della corona reale.  

                    R. Avraham Portaleone (Mantova, 1542-1612) nella sua opera Shiltè Haghibborìm (cap. 44), dedicata
    principalmente alla descrizione del servizio nel Bet Ha-Mikdàsh, citando il Talmud babilonese (trattato ‘Arakhìn, 16a) scrive che come i korbanòt (sacrifici) servivano da
    espiazione per i peccati, così pure i vestimenti del Kohen Gadòl avevano una funzione espiatoria. Per questo motivo il
    passo della Torà che tratta dei sacrifici segue immediatamente quello dei
    vestimenti. Il pettorale, artisticamente lavorato, di fattura uguale a quella
    dell’efòd (dorsale) era di forma
    quadrata confezionato con fili d’oro, di tekhèlet,
    di porpora, di colore scarlatto e di lino ritorto. Era quadrato e ripiegato in
    due, di una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza ed era coperto con
    un’incastonatura di pietre preziose, disposte in quattro file. Era chiamato chòshen mishpàt, pettorale del giudizio,
    e serviva di espiazione ai dayanìm (giudici).
    Il dorsale (efòd) serviva da
    espiazione per chi si era reso colpevole di ‘avoda
    zarà (idolatria, lett. culto estraneo). Il manto (me’il) azzurro serviva da espiazione per chi si era reso colpevole
    di malalingua. La tunica ricamata espiava il versamento di sangue, il turbante
    espiava la superbia, e la cintura espiava i pensieri impuri. Il frontale
    espiava l’arroganza e i pantaloni, i peccati sessuali. 

                    Il pettorale con i
    suoi anelli era legato agli anelli dell’efòd
    (dorsale) mediante un filo di colore tekhèlet,
    al di sopra della cintura dell’efòd
    affinché il pettorale non si staccasse dall’efòd
    (ibid., 28:28).

                    R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1886, New York) in Daràsh Moshè (ed. inglese, pp. 139-140)
    cita il Talmud babilonese (Trattato Yomà, 72a) nel quale i Maestri affermano
    che la proibizione di staccare il pettorale dall’efòd è una delle mitzvòt
    proscrittive. Per spiegare il motivo di questa mitzvà, R. Feinstein menziona il fatto che ognuno dei vestimenti
    del Kohen Gadòl aveva una sua
    funzione espiatoria: come già citò R. Portaleone nella sua opera, l’efòd
    serviva ad espiare il peccato d’idolatria e il chòshen, il pettorale, serviva da espiazione per la perversione
    della giustizia, sia da parte dei singoli nei loro affari, sia da parte dei
    giudici nelle loro decisioni. La trasgressione delle mitzvòt che regolano il mondo degli affari sono simili
    all’idolatria perché rivelano mancanza di fiducia nell’Eterno: colui che è
    fermamente convinto che l’Eterno provvede alle necessità degli esseri umani,
    evita di comportarsi in modo disonesto nei confronti del prossimo. La Torà
    richiede che il chòshen e l’efòd siano legati, perché i peccati che
    entrano nella sfera dell’uno coinvolgono necessariamente anche l’altro.
         

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