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    Commento alla Torà. Parashà di Vayakhèl: gli specchi delle donne pie

    Nella terza mishnà del terzo
    capitolo del trattato Yomà (che in
    aramaico significa “giorno” come yom
    in ebraico) che descrive il servizio del Kohèn
    Gadòl nel Bet Hamikdàsh nel
    giorno di Kippur, è scritto: “nessuna persona poteva entrare nella ‘azarà (il cortile di fronte al Bet Hamikdàsh) per il servizio, persino
    se era in stato di purità fintanto che non faceva la tevilà (l’immersione nel mikvè).
    In questo giorno il Kohèn Gadòl doveva
    fare cinque tevilòt e doveva lavare
    mani e piedi dieci volte…”.  I kohanìm lavavano mani e piedi dal kiyòr, che era una conca-lavabo di
    bronzo a forma di emisfero con dei fori sulla parte inferiore dove vi erano dei
    rubinetti. Si posava su una base e aveva un circonferenza di nove amòt (nove cubiti, equivalenti a circa
    4,50 metri). Il kiyòr si trovava tra
    il mizbèach (altare) e la facciata
    del Bet Hamikdàsh.

                    Onkelos (I secolo E.V.), che tradusse la Torà in lingua aramaica,
    scrisse che il kiyòr fu costruito con
    gli specchi delle donne “che venivano a pregare” all’entrata del Mishkàn (il tabernacolo mobile nel
    deserto).

                    R.
    Avraham ibn ‘Ezra (Spagna,
    1089-1167) nel suo commento scrive che vi erano in Israele numerose donne pie
    che rinunciarono agli specchi e a farsi belle e che venivano di giorno in
    giorno all’entrata del Mishkàn non
    solo a pregare ma anche a sentire gli insegnamenti delle mitzvòt.   

                    Rashì (Francia, 1040-1105) nel suo commento cita un midràsh di rabbi Tanchumà nel quale è scritto che le donne israelite avevano degli
    specchi che usavano quando volevano adornarsi. Moshè non voleva accettare
    questi specchi perché erano fatti per aiutare le donne ad attrarre i mariti. Il
    Santo Benedetto disse a Moshè di accettare il dono degli specchi, che erano più
    graditi di tutte le altre donazioni perché grazie a questi specchi le donne
    israelite furono in grado di avere tanti bambini. Il kiyòr nel Bet Hamikdàsh era
    anche uno strumento per portare la pace in famiglia quando la moglie era stata sospettata
    dal marito di aver commesso adulterio. L’acqua del kiyòr serviva a dimostrare che la donna che la beveva e non subiva
    alcun danno fisico, era sincera e fedele.

    R. Efraim
    Luntschitz (Polonia, 1550-1619,
    Praga) nel suo commento Kelì Yakàr,
    osserva che vi è un parallelismo tra gli specchi di bronzo e il kiyòr. Gli specchi mettevano in evidenza
    se le donne erano belle o meno, e l’acqua del kiyòr serviva a mettere in evidenza se erano fedeli al marito. 

                    R.
    Ovadyà Sforno (Cesena, 1475-1550,
    Bologna) commenta che il kiyòr non
    faceva parte degli oggetti per i quali era stato usato il bronzo donato da tutto
    il popolo. Per la costruzione del Mishkàn
    e per i vestimenti dei kohanìm il
    popolo aveva donato tanti materiali tra i quali oro, argento e bronzo, lana,
    lino e pelli. Per il kiyòr è invece
    scritto che Betzalèl, il principale architetto del Mishkàn, “Fece la conca di bronzo e il piedestallo pure di bronzo,
    servendosi degli specchi delle donne che si assembravano all’entrata della
    tenda della radunanza” (Shemòt,
    38:8).

                    R. Shabbetai Bass (Polonia, 1641-1718, Prussia) nel suo commento Siftè Chakhamìm a quello di Rashì, fa
    notare la stranezza del fatto che Moshè non volesse accettare il dono degli
    specchi perché servivano a destare l’istinto naturale. Egli fa notare che Moshè
    aveva accettato la donazione di gioielli che dovevano essere ancor meno graditi
    come il kumàz, alludendo al fatto che
    era una cintura di castità. Egli spiega che vi era una notevole differenza tra
    i gioielli come orecchini, anelli e kumàz,
    che erano d’oro, perché vennero fusi. Il metallo degli specchi di bronzo non
    venne fuso e fu usato così com’era per costruire il kiyòr. 

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