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    Dal Giorno della Memoria al “Festival delle memorie”: una perversione pericolosa della storia

    Il Giorno della Memoria ha appena 21 anni. Fu celebrato ufficialmente per la prima volta il 27 gennaio 2001, dopo una legge approvata nel luglio 2000. Nazioni Unite, Unione Europea e altri stati seguirono. È stata una realizzazione importante, ottenuta 55 anni dopo la caduta del nazismo. Che la memoria fosse un dovere, che non si dovesse rimuovere l’immenso crimine di un genocidio compiuto nel bel mezzo dell’Europa con la complicità di governi e anche di popoli, fu difficile da far capire. Ancora oggi non mancano i negazionisti più o meno espliciti. Per ottenere questo risultato, cioè il riconoscimento ufficiale della necessità della memoria, si sono spesi per decenni i sopravvissuti, scrivendo libri come Primo Levi e Elie Wiesel, andando a parlare nelle scuole, guidando visite nei campi di sterminio, testimoniando per film e trasmissioni televisive, rinnovando con dolore il loro personale ricordo: hanno raccontato mille volte la loro esperienza cercando di comunicare il lutto per l’orrore infinito, di spiegare l’unicità della persecuzione subita, di indicarne le cause e i responsabili, di ammonire sul pericolo che il progetto dello sterminio tornasse in vita.

     

    Il Giorno della memoria è realizzato spesso in maniera un po’ retorica e burocratica, talvolta con degli abusi e dei fraintendimenti, ma quasi sempre rispettando lo scopo stabilito dalla legge istitutiva: “ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.” Sui limiti, sugli abusi e sulla necessità di utilizzare bene il Giorno della Memoria ho appena pubblicato un libro (“Mai più”, Editore Sonda, in uscita il 13 gennaio).

     

    Ora però qualcuno ha pensato di andare al di là di questi problemi e di questi limiti, allestendo in un pubblico teatro finanziato dai contribuenti un’iniziativa intitolata “Festival delle Memorie”. Forse è un mio eccesso di sensibilità, ma devo confessarlo, l’idea di un “Festival” riferito alla Shoà, mi produce una vertigine e un senso fisico di nausea: è possibile accostare la parola “festa” (da cui festival evidentemente deriva) al genocidio, alla strage e alla tortura di milioni di persone? Chi può essere così perverso o così insensibile da pensare a una Sanremo della Shoà?

     

    Ma il tema vero è un altro. È giusto parlare di “memorie” al plurale? Senza dubbio le atrocità nella storia dell’umanità sono state tante e anche nel secolo scorso i genocidi sono stati numerosi: quello degli armeni, che fornì in parte il modello per la Shoà, quelli paralleli dei Greci e degli Assiri cristiani dell’impero ottomano, quello dei Tutsi, quello tentato di recente dall’Isis su Curdi e Yazidi. Nessun dubbio che vadano ricordati e condannati. Ma vanno messi assieme in un blocco, mescolandone ragioni, responsabilità, modelli criminali? L’odio sparso dai colonialisti in Ruanda, la feroce volontà di omogeneizzare etnicamente e religiosamente la Turchia, l’esito dell’antisemitismo millenario dell’Europa e dell’Islam possono essere mescolati senza perdere senso? Non si smarrisce, in questo festival o minestrone, il senso preciso delle responsabilità storiche? Non si disperde il senso della storia, fermandosi all’apparenza generica della cattiveria umana o della malvagità del potere? Non si rischia soprattutto di rovesciare le responsabilità e di schierarsi, come fa da tempo chi ha concepito questa oscenità chiamata “festival”, con quella linea politico-culturale palestinista che negli anni della Shoà si schierò attivamente con il nazismo per contribuire allo sterminio degli ebrei e oggi reitera questo progetto, sognando una nuova Shoà in Israele e cercando di anticiparla col terrorismo?

     

    Non sono pericoli astratti. Molti cercano oggi di insinuare un nuovo negazionismo sulla Shoà, quello che punta a presentare la capacità di autodifesa conquistata dagli eredi delle vittime non come la prevenzione della ripetizione del genocidio, ma come la sua nuova attuazione; e che cerca oggi di delegittimare, demonizzare, distruggere l’autodeterminazione nazionale degli ebrei. Anche questa è un’oscenità antisemita, che riprende i temi della propaganda dei nazisti e dei loro alleati di un tempo, come il Gran Muftì di Gerusalemme Amin al Husseini. Combattere ogni forma perversa di mascheramento del Giorno della Memoria è un dovere per tutti coloro che hanno capito davvero che cosa è stata la Shoà.

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