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    La difesa della razza e le “pecore matte”. Paradiso canto quinto

    Nell’autunno del 1938 qualcuno si sarà indubbiamente domandato se per caso Dante Alighieri risultasse in qualche modo un precursore del razzismo antiebraico appena codificato sulla Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia. Il 5 agosto del 1938 il giornalista Telesio Interlandi (1894-1965) aveva mandato in edicola un nuovo periodico quindicinale: La difesa della razza. Fu il coronamento di una carriera: militante antisemita già con Il Tevere e animatore dell’ala più estremista del regime, Interlandi appariva personalmente informato delle iniziative di Benito Mussolini. Già nelle prime settimane del mese successivo, e cioè a partire dal 5 settembre, Vittorio Emanuele III avrebbe sistematicamente firmato e promulgato i decreti di legge che escludevano gli ebrei italiani dalla vita dello Stato e della nazione, cominciando dalla scuola e dunque dai più giovani e giovanissimi, bambini inclusi. Chi, se non altro per pura curiosità prima ancora che per pregiudizio antisemita, avesse acquistato quel primo numero della rivista avrebbe notato proprio accanto alla testata un riquadro che incorniciava due versi (67 e 68) del Canto XVI del Paradiso dantesco: “Sempre la confusion de le persone / principio fu del mal de la cittade”. E’ Cacciaguida, trisavolo di Dante Alighieri, che parla al discendente spiegando come la mescolanza con persone estranee (gente del contado e anche gli inurbati dai borghi vicini) avesse portato dentro la “cerchia antica” di Firenze discordie, novità dannose e perfino “lo puzzo del villan”. Il periodico di Interlandi durò per 117 numeri, fino al 20 giugno 1943. Poté avvalersi per il proprio finanziamento della pubblicità dei maggiori gruppi industriali e raggiunse una tiratura di 150.000 copie. La struttura della pagina di copertina era di forte impatto (la grafica del regime non temeva rivali in Europa, nazionalsocialisti inclusi) e il messaggio molto chiaro: anche gli ebrei sono estranei e nocivi nell’Italia fascista, e come tali saranno trattati. La data di pubblicazione veniva indicata con gli anni del regime, senza neanche aggiungervi la sigla chiarificatrice E.F. per Era Fascista. Tuttavia, con il numero1 della seconda annata (5 novembre XVII, cioè 1939) si potevano già vedere nel riquadro in copertina altri versi danteschi, sicuramente più espliciti. Dunque: “uomini siate e non pecore matte, /sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida! “ (Paradiso, V, 80-81). Parole di Beatrice, che introduce Dante nel secondo cielo. Si sono spese non poche energie di medievisti e critici letterari per giustificare questi versi della Commedia. In realtà Dante Alighieri sulla questione non va certamente giustificato, ammesso che si debbano in qualche modo giustificare strutture concettuali antecedenti la modernità, e anche l’interpretazione è davvero accessibile. Gli ebrei costituiscono una nazione straniera ospitata nell’Italia dei comuni medievali. Sono liberi di autogovernarsi benché, ovviamente, sottoposti al diritto comune nei rapporti con i cristiani. Almeno in Italia, la differenza ebraica non si presenta come problema al tempo di Dante. Il quale è perfettamente in grado di distinguere tra gli ebrei delle Scritture veterotestamentarie e gli ebrei contemporanei. Di essi scrive soltanto nel passo delle “pecore matte”. Talora il non detto risulta più importante delle affermazioni esplicite. Le celebrazioni dantesche sono state affidate soprattutto agli storici in senso stretto, anziché agli storici della letteratura e della critica letteraria. Tuttavia qualche commentatore aveva già notato che per spiegare in chiave diversa l’evocazione dell’ebreo che ironizza sui cristiani occorre piuttosto riferirsi a una novella di Giovanni Boccaccio (la prima della seconda giornata): Abraam giudeo da Giannotto di Civignì stimolato va in corte di Roma e vedendo la malvagità de’ chierici torna a Parigi e fassi christiano. In Italia il Decameron circolava con gran successo già alla metà del Trecento e segna da noi l’autunno del Medioevo. Al contrario, e in sintonia perfetta con il proprio tempo, trenta anni prima  la Divina Commedia non ammetteva sconti. L’avo Cacciaguida era morto combattendo contro i musulmani durante la seconda crociata, e infatti: “Quivi fu’ io da quella gente turpa / disviluppato dal mondo fallace”. L’Islam viene considerato uno scisma del cristianesimo (Inferno, XXVIII). Benito Mussolini, invece, si era proclamato protettore dell’Islam nel marzo 1937, in Libia. Interlandi aveva la vista e la memoria lunghe, e con ogni evidenza i suoi redattori conoscevano bene la Commedia dantesca. Meglio arruolare il padre più nobile della poesia e della lingua nella propaganda razzista antiebraica. Telesio Interlandi sapeva molto bene che la cultura di massa apprezza più le invettive che non la poesia e la poetica. Per Beatrice le pecore matte rappresentano in metafora il mondo cristiano che si comporta in modo irragionevole anziché seguire l’insegnamento delle sacre scritture e della Chiesa. Da notare, infine, la tecnica davvero moderna di Interlandi. Avrebbe potuto ricorrere ai più classici stereotipi del pregiudizio antiebraico nell’Europa cristiana. Nel XXIII dell’Inferno, tra gli ipocriti condannati per l’eternità a un supplizio atroce, il lettore trova Caifasso (Caifa/Kaiafa) e Anna (Anania/Chananià), i sacerdoti alla guida del Sinedrio che nella narrazione dei Vangeli chiede a Ponzio Pilato la condanna di Gesù. Ma la rivista ufficiale del razzismo fascista preferisce all’inizio incitare alla diffidenza e all’emarginazione totale. La persecuzione dei diritti precede necessariamente la persecuzione delle persone fisiche.

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