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SPECIALE PESACH 5784

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    Misteri ed emozioni di una giornata

    Nel quarantesimo anniversario dell’attentato del 9 ottobre 1982 al Tempio Maggiore, si apre a Roma la mostra “9 ottobre 1982” alle Terme di Diocleziano (9 ottobre – 11 novembre). Un percorso espositivo che si prospetta costruito con rigore scientifico e da spazi dal forte impatto emotivo. Shalom ha incontrato il prof. Alberto Melloni – segretario della Fondazione per le scienze religiose e Linceo – curatore della mostra.

     

    Come è nato il progetto e con quali criteri è stato sviluppato?

    Abbiamo avviato con la Fondazione per le scienze religiose un catalogo sugli uccisi sui luoghi di preghiera in tutto il mondo: e abbiamo deciso di farlo sui quarant’anni e di iniziare con l’attentato del 9 ottobre 1982, perché ci sembrava doveroso e giusto, e ci siamo concentrati su quella tragedia. 

    Si sono applicati i canoni della ricerca storica e quelli narrativi del video storico: in sei abbiamo raccolto cartenegli archivi dei ministeri, della polizia, fondi diplomatici italiani e stranieri, carte dei servizi, atti processuali. È stata poi affiancata l’analisi della stampa di quegli anni, il tutto è confluito in un‘repository’ di un centinaio di migliaia di documenti.

     

    In che modo sarà restituito ai visitatori?

    Attraverso un filo narrativo che ha cercato di mettere insieme tre aspetti. In primo luogo il tracimare in Europa del terrorismo palestinese col passaggio dall’attacco ai civili in Israele all’attacco ai civili in Europa, che fra il 1972 e il 1982 evoca il terrificante ritorno dell’assassinio degli ebrei in quanto ebrei in Europa. Poi il rimontare dell’antisemitismo in Italia e del sentimento antisraeliano come colpa collettiva: emerso al momento della guerra del Libano, ma che come dimostra la catena degli attentati contro gli ebrei è cominciata molto prima.Il terzo filone è quello dell’attentato in sé e per sé: perché in esso sono una serie di elementi inspiegati e inspiegabili. Per esempio l’assenza della vigilanza davanti alla sinagoga: conosciamo una lettera dell’agosto 1982 precedente di Tullia Zevi a Virginio Rognoni (l’allora Ministro degli Interni n.d.r.) in cui il dilagare degli attentati in Italia allarma tutti, anche se il Viminale aveva già un catalogo molto preciso di quello che stava succedendo. Ciò che non sappiamo è il meccanismo con cui il presidio notturno della polizia davanti la sinagoga non si sia trasformato in vigilanza diurna. Tra le altre cose inspiegabili c’è la meccanica dell’attentato. Noi sappiamo di due terroristi, ma tutti parlano di almeno sei persone. E basta un rapido calcolo per capire che per un attentato così ci vuole una logistica molto attiva e strutturata di decine di persone, di cui non si trova nessuno, tranne Osama Abdel Al Zomar che alla fine non si riesce nemmeno ad estradare in Italia dopo la sua cattura in Grecia.

     

    Quale fu la percezione di quel tragico momento?

    Quel delitto avvenne nei luoghi della razzia de 16 ottobre 1943, che in quel momento era un lutto e fardello principalmente ebraico e rimosso dalla coscienza nazionale. Lo ricordò Bruno Zevi, all’indomani dell’attentato, nel discorso nel Consiglio Comunale: il primo a ricordarlo in Consiglio a Roma fu Giulio Carlo Argan nel 1976. Nella stessa maniera, mi pare, fu a lungo percepito l’attentato del 9 ottobre: una tragedia della comunità. Solo ora sta diventando un lutto nazionale: da quando il Presidente Sergio Mattarella per la prima volta nel suo discorso di insediamento ha ricordato Stefano Gaj Taché. Il fatto dunque che questa mostra così come il podcast di Giancarlo De Cataldo musicato da Nicola Piovani siano sostenuti dal Comitato per gli anniversari di interesse nazionale della Presidenza del Consiglio – che ricorda o commemora i grandi eventi nazionali – ha un significato che trovo molto importante.

     

    E come è stato tradotto visivamente?

    Il pubblico potrà avere un’idea della vicenda attraverso il percorso espositivo alle Terme di Diocleziano – che useremo per 41 giorni – annunciata con la foto di un talled insanguinato scattata da Stefano Montefiori il 9 ottobre. All’interno dello spazio ci saranno appesi 41 talledot di 1,70 x 3,20 metri, su 29 dei quali sono proiettati dei montaggi video di documenti, foto, clip, atti, sempre per multipli di 41 secondi,alcuni saranno stampati. A terra delle didascalie spiegano l’itinerario che va dalla memoria del 1943, al clima dell’odio antisemita, ai segnali di allarme, al delitto, al processo. Nell’ultima sala troveremo i certificati di ricovero dei feriti e, al centro, il segno di pietra d’inciampo con il nome di Stefano Gaj Taché che il Cielo vede, ma che non è ancora scesa a terra.

     

    Una mostra come questa può aprire nuovi interrogativi.

    Penso che sia il compito della ricerca storica: e il fatto che questo delitto sia rimasto impunito li rende evidenti. Basta rendersi conto che ci sono almeno due assassini a piede libero e forse una quarantina di persone che hanno collaborato direttamente o indirettamente, delle quali non abbiamo mai capito la provenienza e il profilo. L’assunzione del lutto da parte degli studi e delle istituzioni dovrebbe dunque corrispondere anche alla convinzione che ci sia la possibilità di raggiungere una verità storica – che è più piccola e diversa da quella della giustizia – che non riaggiusta niente, ma che va perseguita con molta determinazione.

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