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    Parashà di Lekh Lekhà. I patriarchi facevano del bene a tutti

    R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia, 1513-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, scrisse il suo commento alla Torà, Ma’asè Hashèm (Le opere dell’Eterno) in quattro parti. La parte, chiamata Ma’asè Bereshìt (il racconto della creazione) comprende solo la parashà di Bereshìt. La seconda parte, intitolata Ma’asè Avòt (le vicende dei patriarchi) inizia con la parasta di Lekh Lekhà e termina con il primo libro della Torà. La terza parte, Ma’asè Mitzràim (il racconto dell’Egitto) tratta la schiavitù, i miracoli e l’Esodo; e dalla parashà di Beshallàch in poi vi è la parte denominata Ma’asè Torà (la narrazione della Torà). Con la parashà di Lekh Lekhà ha quindi inizio la narrazione delle vicende dei tre patriarchi, Avrahàm, Yitzchàk e Ya’akòv.

    Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) all’inizio di questa parashà (Bereshìt, 12:6) commenta: “Vi è una regola per tutte le parashòt che trattano di Avrahàm, di Yitzchàk e di Ya’akòv, […] e cioè che tutte quello che capitò ai patriarchi è un segno (simàn) per i loro discendenti”. Pertanto la Torà descrive i loro viaggi e anche delle vicende che sembrano superflue, ma che vengono tutte per insegnare cosa sarebbe successo in futuro. Si tratta quindi di racconti che comprendono una moltitudine di insegnamenti per il popolo d’Israele.

    R. Naftalì Tzvi Yehudà Berlin (Belarus, 1816-1893, Varsavia) nell’introduzione al suo commento Ha’amèk Davàr, scrive che il libro di Bereshìt è chiamato dai profeti “Sèfer Ha-Yashàr”. R. Yochanàn nel Talmud Babilonese (trattato ‘Avodà Zarà, 25a) afferma che il libro di Bereshìt è chiamato  “Sèfer Ha-Yashàr” perché si parla di Avrahàm, di Yitzchàk e di Ya’akòv che erano “Yesharìm”. La parola “Yesharìm” fu usata dal profeta Bil’àm quando disse: “Possa io morire con la morte dei yesharìm”(Bemidbàr, 23:10), cioè quella dei patriarchi. Per quale motivo Bil’àm chiamò i patriarchi “yesharìm” e non tzaddikìm (giusti) o chassidìm (pii)?  

    Il motivo, spiega R. Berlin, è che non è sufficiente essere giusti e pii. I patriarchi, oltre ad essere giusti e pii, erano anche “yesharìm”. “Yesharìm” significa che i patriarchi facevano del bene a tutti e perfino ai peggiori idolatri, senza discriminare. A tale scopo essi andavano al di la della lettera della legge. Un primo esempio è quello di Avrahàm che si sforzò a pregare per salvare la città di Sodoma (Bereshìt, 18:23-33), anche se essi e il loro Re erano a lui odiosi a causa della loro malvagità. Nel Midràsh Rabbà (Vayerà, 49) i maestri citano il versetto “Hai amato la giustizia e odiato la malvagità”, spiegandone il significato: l’Eterno disse ad Avrahàm: “Hai amato giustificare le Mie creature e hai odiato accusarle“. Questo comportamento era appropriato al nome di “Avrahàm che significa “padre di una moltitudine di nazioni”. Anche se il figlio si comporta male, il padre gli augura ugualmente il bene.

    Un comportamento simile lo osserviamo in Yitzchàk che si rappacificò facilmente con le poche parole che gli disse il re Avimèlekh (Bereshìt, 26,:28-29) che lo aveva espulso dalla città di Gheràr (Bereshìt, 26:16). E anche il patriarca Ya’akòv, dopo essersi adirato con il suocero Lavàn, sapendo del male che gli avrebbe voluto fare, si rivolse a lui parlando in modo pacato, al punto che i maestri nel Midràsh Rabbà (Bereshìt, 74) dissero che è preferibile la severità dei patriarchi all’umiltà dei loro discendenti. Dal comportamento dei patriarchi possiamo quindi imparare tante altre cose che servono a far sì che la società umana possa sussistere in pace e armonia.  

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