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    Parashà di Vaetchanàn. La forza della tefillà comunitaria

    Dopo aver nominato Yehoshua’ suo successore, Moshè pregò l’Eterno dicendo: “In quel periodo supplicai l’Eterno […] di lasciarmi passare il Giordano per poter vedere la buona terra…” (Devarìm, 3:23-25). In questa preghiera Mosè usò il verbo “hitchanèn” (supplicare) invece di un’altra espressione di preghiera come quella più comune di “hitpallèl” (con la stessa radice di tefillà).

    Nel Midràsh (Devarìm Rabbà, Vaetchanàn) rabbi Yochanàn insegna che nella lingua della Torà vi sono ben dieci espressioni per la preghiera. E nel Midràsh Yalkùt Shim’onì ne vengono elencate addirittura tredici! A parte il fatto che questa numerosità di espressioni è di per se un’importante indicazione dell’importanza della preghiera (tefillà)per il popolo d’Israele, è interessante conoscere il motivo per il quale Moshè uso proprio il verbo “hitchanèn” per la sua richiesta all’Eterno.

    Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento scrive: “L’espressione chinùn ha sempre il significato di una dono gratuito. I giusti potrebbero fare delle richieste sulla base delle loro buone azioni. E invece quando si rivolgono all’Onnipresente chiedono solo doni gratuiti, imparando dall’Eterno che disse «Ve-chanotì (dalla radice “chanàn”)et ashèr achòn (accorderò grazia a chi vorrò accordarla)»” (Shemòt, 33:19). L’Eterno è anche chiamato chanùn (magnanimo, generoso).

    Nel Midràsh (Shemòt  Rabbà, 45:6), che si riferisce a quest’ultimo versetto, è raccontato che l’Eterno mostrò a Moshè la sala del tesoro dove era custodita la ricompensa per i giusti. In una sezione vi era la ricompensa per coloro che osservano le mitzvòt; in un’altra per coloro che si occupano degli orfani; in una terza sezione vi era la ricompensa per coloro che raccolgono e distribuiscono la tzedakà e così via. Poi Moshè  vide una sezione molto più grande delle altre e chiese a chi fosse destinata. L’Eterno rispose che in quella sezione vi era la ricompensa per coloro che non avevano meriti e che veniva data gratuitamente.

    R. Mordechai Hakohen (Safed, 1523-1598’, Aleppo) in Siftè Kohèn scrive che Moshè si rese conto che l’Eterno gli aveva mostrato la sezione delle ricompense date gratuitamente affinché egli pregasse con il verbo hitchanèn. Un altro motivo per cui Moshè pregò in questo modo era quello di insegnare alle generazioni future di non pregare menzionando i propri meriti. Questo perché quando una persona valuta le buone azioni che ha fatto, il più delle volte sono state fatte grazie al Benedetto che gli ha dato la forza e l’opportunità di farle. E se Moshè chiese un dono gratuito a maggior ragione così devono fare gli altri.

    Moshè chiese di poter entrare a vedere la Terra Promessa anche se lo avrebbe dovuto fare al seguito del suo discepolo Yehoshua’, per mostrare al popolo quanto fosse importante Eretz Israel. R. Hakohèn cita anche il Midràsh Tanchumà (Vaetchanàn, 4) dove i maestri dissero che anche se una persona è gravemente ammalata e ha già fatto testamento può ugualmente pregare per la propria guarigione perché il Santo Benedetto non invalida le preghiere di nessuna creatura. E questo lo si impara da Moshè che anche dopo aver messo per iscritto che la Transgiordania sarebbe stata assegnata alle tribù di Reuven e Gad e che Yehoshua’ sarebbe stato suo successore, implorò l’Eterno di poter entrare nella Terra promessa.  

    R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) cita il Midrash (Sifri, 3:24) dove è detto che se la comunità si fosse associata alla preghiera di Moshè, l’Eterno avrebbe risposto affermativamente alla richiesta. Sfortunatamente la comunità d’Israele non capì l’importanza e la forza della tefillà pubblica e a causa della loro ignoranza, Moshè morì nel deserto.

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