“Il nazionalismo considera nemico tutto ciò che rischia di sconnettere la patria, di snaturarla o di dare un giorno o l’altro ragione allo straniero contro di lei. Il nazionalismo si definirebbe dunque non per ostilità alle nazioni esterne, quanto al nemico interno, punto in cui l’antinazionalismo, l’internazionalismo e il sovranazisnalismo convergerebbero”. Sono inciampata in queste parole nel bel mezzo del libro di Roberto Finzi “Breve storia della questione antisemita”. Caso ha voluto che le abbia lette il giorno successivo all’aggressione dei gilet gialli al filosofo Alain Finkielkraut. Perché considerare gli ebrei nemici interni nella Francia del 1894? L’esercito francese contava 300 ufficiali ebrei su 40.000 ebrei complessivi: l’un per mille della popolazione diventava l’un per cento nei quadri militari! Il nemico dunque non era lo straniero, riconoscibile perché parlava una lingua straniera o si vestiva in modo atipico. Il nemico era colui che ti abitava accanto e che di tanto in tanto ti invitava a casa propria offrendo un tè con due biscotti. E oggi chi è il nemico? Non più colui che ti ospita a casa ma chi, nell’immaginario autoreferenziale dell’antisemita, gode di relazioni privilegiate con il potere, o i poteri, quelli forti. Chi è sionista e dunque non abbastanza francese - come se le due cose fossero in contraddizione - chi è ebreo e automaticamente cittadino d’Israele. L’antisemitismo è sganciato dagli atti degli ebrei e persiste anche in loro assenza, e se l’ebreo non esistesse, l’antisemita lo inventerebbe. L’odio non ha bisogno di motivi per nascere, ma li crea a posteriori e questo manuale ce lo ricorda.
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