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    La generazione del deserto. L’ultimo libro di Lia Tagliacozzo

    È davvero finito il tempo del lutto? Siamo giunti davvero ad una memoria civile? Il pianto è tornato ad essere il fatto privato di una famiglia toccata da vicende lontane? Non penso sia così. Forse noi adesso saremmo pronti ma non lo è il mondo che ci circonda e non gli faremo la grazia di rinchiuderci a piangere i nostri morti nel silenzio. (…) Dovere civile è sapere cosa fosse l’Europa prima di questa migliorabile Unione Europea, in quale teatro fosse stata trasformata quando nazionalismi e potenti uno contro l’altro armati si sono fatti guerra. 

    La generazione del deserto, storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia è il nuovo libro di Lia Tagliacozzo scritto per Manni editori. Quello che a prima vista sembrerebbe un diario di famiglia si rivela una riflessione sulla responsabilità nei confronti delle generazioni passate e future. I personaggi che costellano queste pagine si muovono tra Roma, Firenze, le Alpi e la Svizzera negli anni della persecuzione nazista. Tra silenzi, racconti e fotografie in bianco e nero il passato esplorato si intreccia alla storia impersonale del Novecento. Il libro si compone di storie, ricordi, riflessioni e interrogativi. 

    Nonna – quella romana senza articolo, al contrario di quella fiorentina – viene ricordata come una regina etiope alle prese con bottoni e fili nella sua merceria nel centro di Roma. 

    La stessa donna che nel 1944 insieme ai due figli di cinque e sette anni viene prima ospitata da suore e poi, per paura di una perquisizione, cacciata via. Dove fosse suo padre, il figlio – e padre di Lia – non lo ricorda o forse non l’hai mai saputo. Ricordi confusi, i suoi, cui è difficile mettere date.

    La nonna Miranda Servi – da parte materna – invece, tra le 44 persone espulse dalle accademie e dagli istituti di cultura fiorentini, si ritrovò ben presto a insegnare nella scuola ebraica messa su in fretta e furia per assicurare un’istruzione ai giovani della comunità, anch’essi estromessi dalle scuole pubbliche perché ebrei. 

    Come spiegare a un bambino con le scarpe firmate che in Italia nel 1942 mancava tutto? E se è vero che i soldati al fronte indossavano scarpe con le suole di cartone, in patria mancava tutto. Ognuno aveva la propria tessera personale con nome e cognome. Ma come poteva la nonna andare dal droghiere e chiedere il pane con la tessera a nome di Miranda Servi? Aveva forse dei documenti falsi? E il nome finto somigliava forse a quello vero? 

    I silenzi che avvolgono nonna Miranda sono analoghi a quelli che pervadono il passato di nonno Arnaldo, a loro volta speculari a quelli del suo traditore. Chi incolpare se la memoria familiare è scarna e chi sa sceglie la via del silenzio? Può forse l’immaginazione fornire risposte? È giusto pretendere spiegazioni, tirare in ballo il Padre Eterno e metterlo sotto accusa? Non sarà forse la Provvidenza a ristabilire la giustizia perduta? Biasimare chi cercò all’epoca la salvezza attraverso il battesimo, l’abiura e la conversione è oggi intellettualmente scorretto e troppo facile sarebbe tacciare questi ultimi di vigliaccheria. 

    Tra aneddoti familiari e tormentate ricostruzioni questa storia ci ricorda che responsabilità e memoria collettiva viaggiano sullo stesso binario e non sono mai gratuite, piuttosto frutto di impegno e curiosità. La stessa curiosità che ha spinto Lia a scrivere un libro e a mettere da piccola le mani sul mobile con la ribalta dove fotografie in bianco e nero e lettere consumate custodivano un passato ancora inesplorato.

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